1.2 Trascorsi rivoluzionari del cinema
L’avvento delle tecnologie digitali nell’industria cinematografica comporta una rivoluzione delle pratiche e delle mansioni, alla pari di rivoluzioni passate che allo stesso modo hanno condotto il cinema lungo le tante fasi della sua evoluzione. Si tratta di cambiamenti da non ascrivere esclusivamente al piano tecnologico, ma che si estendono dallo sviluppo del linguaggio e dello stile ad una maggiore capacità di interazione con la sensibilità dello spettatore.
L’industria internazionale del cinema si è trovata spesso a dover affrontare delle scelte, ad esempio decidendo per l’adozione di uno standard piuttosto che un altro. La standardizzazione del formato a 35 millimetri si è raggiunta nel 1909, ma quando si rese poi necessario lasciare spazio alla colonna sonora, si adottò universalmente il formato detto Academy Standard. L’intero sistema tecnico è stato di volta in volta adattato alle nuove esigenze, attraverso uno sviluppo tecnologico lento ma progressivo. Le rivoluzioni del cinema rompono di netto la continuità con le metodologie precedenti, cambiando la forma e la sostanza dei film:
Mentre impariamo che la tecnica è un modo di fare qualcosa, non la cosa che si fa, cominciamo a capire: a capire che ci muoviamo ancora con i tratti dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un'organizzazione di significati, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona.[6]
Dalla seconda metà degli anni Venti, in America e in Europa si brevettano invenzioni che rendono possibile registrare il sonoro per poi riprodurlo in sincronia con le immagini. È il caso di metodi come il Vitaphone, collaudato dalla Warner Bros. che registrava su dischi magnetici, o come il Movietone della Fox, basato su pellicola.
Prima di allora, la proiezione di film era accompagnata dall'esecuzione di musica dal vivo, pratica che quindi finì per divenire non conveniente.
Il parlato ebbe immediatamente grande successo tra gli spettatori, tanto che le sale cinematografiche vennero aggiornate con le nuove attrezzature piuttosto in fretta: «nel 1932, la conversione al sonoro era di fatto compiuta in tutti gli Stati Uniti.»[7]
I film godevano ora di un potente strumento di riproduzione della realtà che rafforzava le immagini con la sua ricchezza espressiva, insidiando direttamente le altre arti dotate della parola come il teatro, la radio e la letteratura.
Girare un film parlato comportava nuove difficoltà, sia nella recitazione che nell'uso di una specifica lingua, d'ostacolo per le esportazioni. Fu problematico comprendere inizialmente come dovessero svolgersi le riprese in presenza dei nuovi membri del cast tecnico.
Tali cambiamenti richiedevano alla creatività degli autori di avventurarsi in territori inesplorati. Così non fece Charlie Chaplin, come ci ricorda Antonio Costa:
Luci della città (1931) non è un film "parlato" come gli altri che si girano a Hollywood lo stesso anno. Pur non rifiutando la musica e le possibilità narrative del suono, il film è ancora strutturato secondo i canoni espressivi dell'"arte muta".[8]
René Barjavel esprime così la sua delusione per le novità tanto irrispettose dello stile classico:
[…] niente di quel che esce, dolcemente o con grande fracasso, dal magazzino di parole che gli uomini amano usare al posto del loro cervello, nessuna di queste parole sussurrate o urlate ci è stata risparmiata. Abbiamo udito dei personaggi dire “Me ne vado” quando se ne andavano ed eravamo capaci di vederlo, degli innamorati cantare bocca a bocca invece di abbracciarsi, dei morenti prolungare la loro agonia per deporre qualche fiore di retorica.[9]
Il colore, dopo il suono, fu un ulteriore arrivo imprevisto che svelò l'impreparazione di Hollywood di fronte ai nuovi strumenti.
Già all’inizio del secolo scorso esistevano tecniche di colorazione della pellicola in bianco e nero: imbibizioni, viraggi, i procedimenti Pathécolor, Dufaycolor e simili.
I colori erano scelti in base all'atmosfera che si voleva suggerire o al momento del giorno individuato nella narrazione. In alcuni casi, come nel film Maciste all'inferno (Guido Brignone, 1926), si fece della colorazione un uso fortemente emotivo.
Dal 1923 Hollywood adotta in fretta il sistema Technicolor con I dieci comandamenti (The Ten Commandments, Cecil B. DeMille, 1923) e poco dopo in alcuni segmenti di Ben Hur (Ben-Hur, Fred Niblo, 1925).
Il rischio reale che il cinema correva in quegli anni era di ridursi a cartolina illustrata, o magari, sotto l'influsso della pittura, a dipinto animato.
Eppure oggi tale rischio appare azzerato, tanto che film moderni in bianco e nero sono opere rare, e non si può più dire che il cinema a colori riservi particolari attenzioni narcisistiche ai suoi cromatismi.
Una terza rivoluzione è identificabile con l'introduzione dell'elettronica e di tecnologie televisive nel processo produttivo cinematografico. Innovazioni silenziose, che però toccano tutti gli aspetti della lavorazione di un film, della sua archiviazione e trasmissione.
Sono gli anni della proliferazione di svariati formati elettronici analogici, professionali e di uso domestico, come Betacam (lanciato nel 1982 da Sony) o VHS (JVC, 1976), che aprirà la via dell'home video e della fruizione domestica, decentrata, del film.
Gli effetti speciali elettronici trovano nei film per ragazzi la loro più elaborata applicazione, come nel caso di E.T.: L'extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, Steven Spielberg, 1982) o Tron (Steven Lisberger, 1982). Nello stesso periodo si rafforza il movimento della videoarte, che già operava su circuiti lontani da quello cinematografico, e che vede come suoi esponenti di spicco artisti come Bill Viola, Gene Youngblood, Zbigniew Rybczyński.
Le scintille che hanno innescato le rivoluzioni del sonoro, del colore e dell'elettronica scaturivano da soluzioni tecniche. I nuovi strumenti nel soddisfare esigenze artistiche arrivavano a creare nuove forme di linguaggio cinematografico.
Oggi il cinema si trova nuovamente in bilico tra una nuova tagliente tecnologia e un sistema produttivo collaudato ma inadeguato alle nuove esigenze. Il nuovo apparato tecnologico richiede che il cinema vi si adatti, e che nel farlo si reinventi del tutto.
Alessandro Amaducci, studioso e performer di videoarte, scrive queste parole sotto al titolo di Film is dead:
Il digitale ha rimesso in discussione molte cose, tra cui anche la distinzione tra cinema, televisione e video, e soprattutto tra tradizione e sperimentazione. Sono troppi gli incroci possibili per poter delineare una qualsiasi classificazione. Il livello di osmosi è talmente alto che non si può fare altro che parlare di «immagini in movimento». Ma non si tratta di un processo senza resistenze.[10]
Il cinema convenzionale è ancora vitale e produttivo, ma sono in molti ad auspicare un drastico cambio di rotta generale.
Se l'evoluzione del cinema classico ha elaborato una retorica capace di descrivere psicologie e moti interiori[11], lo sconvolgimento digitale può vanificare l'esperienza di cento anni, costringendoci a ripartire da capo, dall'immagine che si muove.