3.4 Finzioni interattive
Il cinema è una macchina narrativa che conduce lo spettatore attraverso un racconto per successione di immagini. Lo scambio unidirezionale di informazioni nega allo spettatore qualunque interazione con il film, salvo che per il controllo della riproduzione e per alcune limitate operazioni possibili con DVD multiangolari.
L'interattività propria del videogame è ontolologicamente differente dalla narrazione del cinema perché non si fonda esclusivamente sulla rappresentazione, bensì sulla simulazione. Il videogame non si limita a rappresentare gli elementi della narrazione, ma ne riproduce il comportamento all'interno di un determinato sistema spaziale, dotato di leggi fisiche proprie.
Le modalità di intervento sugli elementi di gioco variano da titolo a titolo, ma è il videogame stesso a formare le abilità del giocatore, istruendolo ed allenandolo nel corso del gioco.
L'immersione in un videogame è assai prolungata rispetto al film: se questo dura di norma un'ora e mezza, il videogame può richiedere mesi per essere completato, o addirittura può non raggiungere mai un punto d'arresto.
Lo spettatore non accredita più al cinema l'eccezionalità della visione, preferendo per tale scopo, ad esempio, la grafica ad alta definizione delle consolle di ultima generazione, o forme ludiche di realtà virtuale.
Sebbene nel 2005 l'industria americana dei film continuasse ad essere più redditizia dell'industria videoludica[107], oggi il prodotto del settore entertainment che garantisce i maggiori profitti sembra essere proprio il videogame.
Il cinema potrebbe trarre spunto da alcune modalità produttive adottate dall'industria dei videogame, ad esempio la scrittura altamente cooperativa di soggetti, o il rapido adattamento al sistema distributivo digitale.
Halo 3 (Bungie Studios, 2007), distribuito da Microsoft, ha ottenuto il primato di 300 milioni di dollari di incassi per le vendite del gioco nella sua prima settimana sul mercato.[108]
Halo 3, come molti degli altri best-seller del settore, appartiene al genere first-person shooter (FPS), ovvero sparatutto in prima persona, un tipo di gioco che deve il proprio nome alla modalità di visione proposta al giocatore. Il FPS ricalca il punto di vista del personaggio del gioco, come avviene per un'inquadratura soggettiva impiegata nei film.
I giochi più venduti sono quindi quellli che attuano una «messa in azione», più che una «messa in scena», di una simulazione di conflitti bellici. L'azione del giocatore si risolve nell'impiegare armi da fuoco per abbattere dei nemici, animati da un'intelligenza artificiale o da altri giocatori umani, che tenteranno di neutralizzarlo a loro volta.
I videogame possono raggiungere livelli di immedesimazione molto alti.
Nel gioco Quake (id Software, 1996), il giocatore può sostituire il volto dei nemici con fotografie reali. Nella serie di Halo, per favorire nel giocatore l'identificazione con il guerriero protagonista, questi non è mai mostrato senza la sua armatura. Il casco del soldato è quindi una maschera in cui ogni giocatore può vedere sé stesso.[109]
La visione di un film può suscitare nello spettatore il riso, ma anche commozione o tensione, mentre le emozioni prodotte da un videogame possono superare il film nel grado di intensità con cui si manifestano, perché il giocatore, controllando il personaggio come fa un marionettista con il suo fantoccio, attua un'operazione di transfert nel corpo dell'attore virtuale, divenendo un tutt’uno con quest'ultimo.
L'impatto di tale scissione sulla psiche umana, in particolare sui minori, tra realtà e finzione, è all'origine del timore che un gioco violento possa influenzare negativamente il comportamento dell'individuo nella vita reale.
Il videogame, proprio perché percepito dall'utente come dimensione virtuale, è considerato perlopiù come una temporanea evasione dalla realtà, in grado di intrattenere il giocatore permettendogli azioni non ripetibili all'infuori del gioco.
Nel macabro videogame Carmageddon (Stainless Games, 1997), ispirato al film Anno 2000: La Corsa Della Morte (Death Race 2000, Paul Bartel, 1975) il giocatore, alla guida di automobili corazzate, deve investire e uccidere i pedoni per aumentare il proprio punteggio. In Italia il gioco è stato censurato per l’eccessiva violenza, imponendo agli sviluppatori di sostituire le figure umane con degli zombi.
L'esigenza di presentare al giocatore un intreccio narrativo, e di fornirgli le informazioni utili a definire i personaggi e a comprendere le motivazioni che li animano, richiede il ricorso a sequenze audiovisive non interattive che prendano in prestito il linguaggio che è proprio del cinema.
Scene di raccordo tra un livello di gioco e un altro sono piuttosto comuni; a volte queste rivelano un colpo di scena nel plot, per essere subito seguite da un livello di gioco interattivo che scaraventa il giocatore al centro dell'azione.
Nel videogame horror Resident Evil (Biohazard, Capcom, 1996), la cui trama è ispirata ai film di George Romero, al giocatore viene a volte inibito il controllo del personaggio, per permettergli di seguire un copione prestabilito, eseguendo azioni funzionali alla progressione dell'intreccio. Tali sequenze sono evidenziate dall'apparire di due bande orizzontali a margine dello schermo, a simulare il rapporto del fotogramma della pellicola.
The Neverhood (The Neverhood, 1996) e Skullmonkeys (The Neverhood, 1998) sono due videogame creati dall'animatore Doug TenNapel. I due giochi presentano numerosi cortometraggi realizzati in stop-motion in cui figurano i personaggi del gioco, ma la particolarità dei due titoli è che anche la loro grafica interattiva è stata realizzata con l’ausilio di pasta da modellazione. I modellini dei personaggi sono stati fotografati nelle varie pose che compongono i loro movimenti, per essere poi digitalizzati e resi elementi del gioco.
In Street Fighter II: The World Warrior (Capcom, 1991), così come in altri titoli appartenenti al genere picchiaduro, come Fatal Fury (SNK, 1991) e Tekken (Namco, 1994), il giocatore sceglie all'inizio del gioco il proprio combattente, affrontando quindi una serie di incontri di lotta. Con la vittoria del torneo viene narrato un epilogo, ovviamente sempre diverso per ogni combattente con cui si completa il gioco. La sequenza narrativa conclusiva si può così considerare una sorta di ricompensa per l'impegno del giocatore.
Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (Konami, 2001) è un ottimo esempio di ibridazione tra cinema e videogame. Il gioco tende a presentarsi come «film interattivo», per il fitto susseguirsi di parti in cui giocare e scene di narrazione. È interessante notare come i titoli di testa del videogame ricordino quelli di un film, e come, dopo aver mostrato i nomi del cast tecnico e artistico, si chiudano con la dicitura «Produced and directed by Hideo Kojima».
Ai videogame di impianto tradizionale, la cui struttura narrativa procede linearmente verso una conclusione, è contrapposta una tipologia di videogame a finale aperto, in cui il giocatore è libero di muoversi nello spazio del gioco portando a compimento gli obiettivi che di volta in volta si presentano.
Grand Theft Auto III (Rockstar, 2001) permette l'esplorazione di una vasta area urbana e l'interazione con tutte le persone, gli oggetti e i veicoli dello spazio virtuale. Privo di un plot lineare, presenta invece numerosi sub-plot, che affidano al giocatore compiti che egli potrà risolvere in un ordine arbitrario. Nel gioco, la cui attività principale è il furto d'auto, è possibile commettere crimini per aumentare il proprio punteggio, o addirittura uccidere e derubare delle prostitute dopo avere usufruito delle loro prestazioni. Tuttavia, le azioni criminali sono possibili ma non necessarie, e le forze di polizia nel gioco accorrono per punire il giocatore che infrange la legge.
Il successo commerciale di molti titoli videoludici, e il conseguente ingresso dei loro protagonisti nella cosmogonia dei personaggi di finzione, ha sollecitato la realizzazione di film direttamente ispirati ai videogame più famosi. Sono così stati portati sullo schermo Super Mario Bros. (Rocky Morton e Annabel Jankel, 1993), Lara Croft: Tomb Raider (Simon West, 2001), Resident Evil (Paul Anderson, 2002), Doom (Andrzej Bartkowiak, 2005), tutti film omonimi dei videogame da cui sono tratti.
Accade più frequentemente l'operazione inversa, con il lancio sul mercato di videogame ispirati a film, come Ritorno al futuro (Back to the Future, Software Images, 1985), Jurassic Park (Ocean, 1993), e giochi da ogni film Disney degli ultimi venti anni.
I personaggi cinematografici si adattano bene alla loro forma digitale interattiva, perché un videogame tratto da un film può esserne considerato in una certa maniera una riduzione, mantenendo solo alcuni spunti narrativi necessari a ricreare l'intreccio, ed enfatizzando un conlitto o una situazione problematica per la costituzione del gameplay, ovvero l'«esperienza» di gioco, l'insieme delle intuizioni sensibili e delle deduzioni a posteriori[110], e della meccanica imposta dalle regole del gioco.
Non è invece sempre valida l'affermazione inversa, cioè che i personaggi dei videogame si adattino bene alla loro forma filmica:
Il Tomb Rider cinematografico lascia, comunque, un senso di incompletezza perché la storia, che nel gioco è poco più di un pretesto, mostra la sua pesante assenza con l'aggravante che, talora, le acrobazie spericolate di Lara, pur se all'interno di un racconto fantastico, appaiono del tutto irreali mentre risultano assolutamente credibili all'interno del gioco.[111]
Quelli dei film sopra citati, privi dell'interattività che ne contraddistingue la versione videoludica, sono quindi personaggi in cui ci si può solo immedesimare, ma che non è più possibile animare.
Il coinvolgimento dello spettatore all'interno del sistema sensoriale del videogame è alla fine relegato a mero processo mentale, perché limitato all'accoppiata visione-ascolto, al più supportata dall'uso di ‘controller’ capaci di vibrare in risposta all'azione del gioco. Osservare un fantoccio sotto il proprio controllo è un'esperienza sostanzialmente diversa dal percepirsi come parte di un ambiente con cui poter interagire.
La realtà simulata del videogame si avvicina, in maniera incompleta, a modelli di realtà virtuale immersiva ipotizzati in passato da film come Tron (Steven Lisberger, 1982), Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, Brett Leonard, 1992), eXistenZ (David Cronenberg, 1999) e Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999).
Al di là di installazioni artistiche[112] e usi terapeutici[113], la realtà virtuale omnisensoriale non ha finora raggiunto il mercato di massa, perché non esistono ancora i necessari presupposti tecnici per un suo uso orientato all'entertainment.
Forme particolari di interazione in rete tra individui si riscontrano però in progetti come la chat tridimensionale Habbo Hotel (Sulake, 2000), o Second Life (Linden Lab, 2003), un intero mondo virtuale creato come interessante riproduzione dei modelli relazionali umani.
Migliaia di giocatori si ritrovano contemporaneamente a giocare on-line nello stesso spazio virtuale grazie ai Massive Multiplayer Online Role-Playing Game (MMORPG), come World of Warcraft (Blizzard Entertainment, 2004) e Ultima Online (Origin Systems e Electronic Arts, 1997). Osservando l'avatar, alter-ego visivo di ogni giocatore, non si conosce il suo vero aspetto, ma piuttosto l’immagine con cui l'utente, svincolato dalla realtà, ha scelto di rappresentarsi.
Per la promozione dei pagamenti elettronici Visa è stato trasmesso uno spot televisivo in cui due ragazze si trovano su un autobus che subisce il sequestro da parte di alcuni criminali. La visione della scena, che parrebbe appunto l'incipit di un film, viene interrotta allo spettatore dello spot con le due ragazze sedute ad una postazione di un futuristico «cinema totale»[114]. Dopo aver effettuato il pagamento elettronico, le due si trovano nuovamente a vivere il film, e non come semplici spettatrici, perché presenti sulla scena e coinvolte direttamente nell'azione. Lo spot si chiude sull'autista del bus, interpretato da Bruce Willis, che invita le ragazze a prepararsi a una corsa mozzafiato.
René Barjavel è autore di un saggio che può essere considerato come una sorta di vaticinio lungimirante, considerando che è stato scritto ancor prima dell'avvento del colore nel cinema. Barjavel, stimolato dalle novità che sarebbero state apportate di lì a poco dalla televisione, scriveva:
Ci sembra che non si perverrà a una soluzione soddisfacente finché il cinema sarà schiavo di una pellicola piana che si chiama film. Trasformare un'immagine piana in immagine a tre dimensioni, anche proiettandola su uno schermo sferico, ci sembra non soltanto difficile, ma illogico.
In verità, occorrerà trasformare direttamente in onde le immagini degli oggetti reali, poi queste onde in immagini virtuali.
Queste immagini saranno materializzate senza lo schermo, o nel riquadro di uno schermo voluminoso e trasparente, forse anche immateriale, costituito, anche lui, da un fascio di onde.[115]
Nell'interrogarsi sul modo in cui gli autori del futuro avrebbero fatto uso dei nuovi strumenti, Barjavel riserva ancora al suo «cinema totale» il carattere di finzione come fondamento ontologico:
Eppure, ogni progresso effettuato dalla settima arte, se le permette di avvicinarsi sempre più al reale, fino all'illusione perfetta, le dà giustamente il mezzo di giocare con questo reale, di servirsi di queste apparenze immateriali ingannevoli per trascinare lo spettatore nel mondo dell'illusione, dell'assurdo, del meraviglioso. Il rilievo giocherà veramente il suo ruolo quando sarà utilizzato per trasformare la realtà solida in fantasmi fugaci, e i fantasmi fiabeschi in esseri reali.[116]