4.1 Creazione dell’inesistente
I registi e gli sceneggiatori, affiancati dalla nuova figura del direttore artistico degli effetti visuali, già in fase di pre-produzione possono contare sulle possibilità creative offerte dalla CGI, Computer-generated imagery, l'immagine sintetica che integra o sostituisce la ripresa dal vero.
Il cinema permette di mostrare sullo schermo topolini parlanti (Stuart Little, Rob Minkoff, 1999), o di fondere insieme riprese di più animali per animare una chimera o un minotauro (Le Cronache di Narnia: Il Leone, la Strega e l’Armadio, The Chronicles of Narnia: The Lion, the Witch and the Wardrobe, Andrew Adamson, 2005), fino a rappresentare forme aliene (Mars Attacks!, Tim Burton, 1996). Il cinema arriva a mostrare forme di vita mai viste, che però sono state necessariamente immaginate, prima che la loro immagine fosse generata.
Il limite che determina cosa si possa vedere in un film è dato unicamente dalla fantasia di chi concepisce il film e il suo contenuto visivo:
Sembra, dunque, che la tecnologia digitale abbia ribaltato un rapporto vecchio almeno quanto il cinematografo: se, fino ad una certa data, il cinema fantasmatizzava il reale riproducendo sul grande schermo una realtà che perdeva ogni fisicità, oggi realizza il virtuale, dotandolo di sembianze che lo spettatore non può far a meno di accettare.[117]
Per gli autori del saggio appena citato, esistono due funzioni espletabili dalle immagini digitali, opposte nelle finalità.
La prima applicazione, come si è visto, è dare corpo a creazioni irreali, come nel caso di forme di vita aliene o di tecnologie non ancora inventate.
Un secondo possibile uso delle immagini digitali risiede nel ricreare ciò che non si può realmente porre di fronte alla camera. Spesso è più semplice ed economico per una produzione fare ricorso alla computergrafica per ambientare una scena in mare o nello spazio: gli ambienti virtuali faranno così da sfondo per le immagini degli attori ripresi in studio.
La grande conquista del digitale [...] consiste proprio nella perfetta integrazione, all'interno dell'immagine filmica, di realtà e virtualità, di analogico e digitale, di continuo e discreto, tale da rendere impossibile allo spettatore la distinzione di cosa appartenga all'uno e cosa all'altro, proprio come viene testimoniato dalla perfetta ed armoniosa convivenza di reale e sintetico nell'oceano e nelle comparse che popolano il Titanic di Cameron.[118]
Il film del 1997, il più costoso della storia del cinema con i suoi duecento milioni di dollari di budget, è un ottimo esempio di come la tecnologia informatica possa sostituirsi alla cinepresa nella produzione di immagini. Molte scene del film sarebbero state impossibili da ottenere senza che le comparse restassero uccise nell'azione.
A gremire il quadretto romantico attorno a cui è costruito il film, trova posto un grande numero di comparse digitali che si somma a quelle realmente presenti sulla scena, con un effetto tanto realistico che non si riescono più a discernere i pixel dalla folla.
Sul piano tecnico, è stato possibile animare le comparse virtuali di Titanic ricorrendo alla tecnica del motion-capture, che ha richiesto la ripresa in studio dei movimenti di stuntman in carne ed ossa, provvisti di sensori su tutto il corpo. L'elaborazione al computer ha poi abbinato al movimento così registrato immagini di comparse in abiti d'epoca. Il risultato è una ricostruzione molto realistica di una figura umana in movimento.[119]
Il grado di fotorealismo che è oggi possibile ottenere consente, oltre alla riproduzione di immagini naturali, anche la generazione di immagini che non abbiano un referente reale. È allora possibile creare l'inesistente, metterlo in scena come se fosse ripreso dal vivo:
Con l'avvento della tecnologia digitale l'uomo conquista la possibilità, sinora inedita, di concepire l'inconcepibile, di materializzare oggetti e forme al di fuori di ciò che è in natura, diventando egli stesso, in un certo senso, quella Natura Naturans di concezione medievale e sfidando Dio nella creazione di mondi, personaggi, storie che seppur soltanto esistenti su uno schermo, posseggono una capacità illusionistica mai raggiunta prima d'ora […]; non più semplicemente ri-produttore, l'artefice delle nuove immagini sintetiche si fa produttore di territori vergini e di realtà di volta in volta nuove.[120]
Nel 1999 l'eclettico Spike Jonze gira un film, per molti aspetti innovativo, scritto dallo sceneggiatore Charlie Kaufman, Essere John Malkovich (Being John Malkovich). Nel racconto, un marionettista trova un passaggio per entrare temporaneamente nella mente di John Malkovich. L'attore, che riveste il ruolo di sé stesso, arriva poi a fare uso egli stesso di tale passaggio. Ciò che si troverà davanti è una dimensione parallela in cui tutte le figure umane hanno il medesimo volto: il suo.
Per lo spettatore, questa è la sequenza del film dal maggiore impatto visivo e drammatico. Il volto di Malkovich è perfettamente innestato nei corpi, maschili e femminili, che affollano il locale. La forza del film è data anche dal senso di straniamento prodotto da questa immagine, tanto irreale quanto fotorealistica.
La rappresentazione digitale fotorealistica, sebbene non sia reale, non assume un carattere di irrealtà, e agli occhi dello spettatore appare, se non reale, perlomeno realistica. Non si potrà stabilire con certezza, quindi, se essa sia naturale o meno.
Nel film australiano Till Human Voices Wake Us (Michael Petroni, 2002), i protagonisti si ritrovano ai piedi di quello che appare essere un albero decorato a festa. Le luci che addobbavano l'albero si rivelano poi essere lucciole che tutte insieme volano in cielo. Ovviamente, l'effetto di luce è interamente realizzato in post-produzione con tecnologie digitali.
Spesso l'artificio viene nascosto, reso non evidente: il pubblico che popolava il Colosseo ne Il Gladiatore (Gladiator, Ridley Scott, 2000) non era reale, o perlomeno lo era solo in parte, dato che un piccolo gruppo di comparse è stato ripreso da più angolazioni e poi replicato per riempire tutti i maeniana[121].
L'effetto speciale non viene percepito come tale, e lo spettatore è portato a credere che la folla sui gradini sia tutta reale.
Nel monologo pronunciato dal protagonista di Lisbon Story (Lisbon Story, Wim Wenders, 1994), Wenders esprime tutte le sue perplessità riguardo la natura riproduttiva del cinema:
Memoria: perché tutto è passato. E chi ci garantisce che quello che immaginiamo sia passato, sia passato realmente? [...] la cinepresa può fissare un momento, ma quel momento è già passato. In fondo, quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento. E abbiamo la certezza che quel momento sia esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è la garanzia dell’esistenza di quel momento?
Se si intende che «un'immagine fotografica è […] qualcosa che mantiene una relazione particolarmente stretta con la realtà che riproduce, al punto di conservare in sé alcune sue caratteristiche», e che si individua «nella natura di calco del reale la sua caratteristica peculiare»[122], si sta valutando l'immagine come 'analogon' del reale, in virtù del processo di 'mimesis' attuato da ogni riproduzione visiva.
[Il cinema digitale] abbatte inoltre la classica distinzione tra Lumière e Méliès, tra realismo e finzione. [...] Il cinema si libera dalle catene della realtà, dalle attribuzioni benjaminiane di "riproducibilità", per affermarsi in maniera indipendente. Non più realtà ma realismo del finzionale che esige una nuova alfabetizzazione, come già dopo la Nouvelle Vague.[123]
Le possibilità di elaborazione proprie del digitale slegano il cinema dalla sua antica funzione riproduttiva, avviandolo verso la produzione di immagini indipendenti dal reale. Questo nuovo regime eleva l'immagine a linguaggio, facendole perdere lo statuto di referente, non codificato, del reale[124]. L'immagine cinematografica, ora più vicina alla pre-visualizzazione mentale del regista, può assumere qualunque significato, controllata dalla logica e dalle regole grammaticali dettate di volta in volta dal film.