Indice

Introduzione

I. Palingenesi delle immagini in movimento
1.1 Cinema come immagini in movimento
1.2 Trascorsi rivoluzionari del cinema
1.3 Il cinema diventa digitale
1.4 La malleabilità dei numeri
1.5 Il film non ha più un corpo

II. La filiera audiovisiva
2.1 Proiezione tradizionale e digitale
2.2 Cinema ovunque
2.3 Marketing alternativo per il cinema
2.4 Operazioni sulla pellicola digitale

III. Lo spettatore attivo
3.1 Lo spettatore senzatetto
3.2 Pirateria off-line e on-line
3.3 Da spettatore a fabbricatore
3.4 Finzioni interattive

IV. Espressioni estetiche del cinema digitale
4.1 Creazione dell'inesistente
4.2 Normali effetti speciali
4.3 Recitazione non attoriale
4.4 Leggerezza del digitale
4.5 Sotto gli occhi di tutti

Conclusione

Bibliografia
Siti web consultati

Introduzione

Esistono solo 10 tipi di persone al mondo:
chi comprende il codice binario e chi no.
–ANONIMO

Questa ricerca ha come punto d'avvio la fine dell'identificazione tra il film e il suo supporto, per poi orientarsi verso gli stravolgimenti che il cinema digitale comporta per l’apparato produttivo più tradizionale.

 

Nel primo capitolo si osserverà come il film nella sua forma finita, oggi, non sia più solo una pellicola. La moltitudine di supporti per la distribuzione ha spezzato l'associazione tra il «contenuto» del film, ovvero le immagini che lo compongono, e il suo supporto, tradizionalmente negativi e positivi in pellicola, ora dischi ottici, schede di memoria a stato solido, hard disk o nastri magnetici.

Si indagherà inoltre su come oggi il cinema, guadagnato ormai il grado di settima arte, permetta agli autori la codificazione di idee articolate in immagini in movimento.

Osserveremo quindi come l’avvento delle tecnologie digitali nell’industria cinematografica comporti una rivoluzione delle pratiche e delle mansioni, alla pari di rivoluzioni passate che allo stesso modo hanno condotto il cinema lungo le tante fasi della sua evoluzione, dall’introduzione del sonoro a quella del colore. Si tratta di cambiamenti da non ascrivere esclusivamente al piano tecnologico, ma che si estendono dallo sviluppo del linguaggio e dello stile ad una maggiore capacità di interazione con la sensibilità dello spettatore.

La ripresa e la proiezione, i due momenti toccati dalla presenza della pellicola, hanno già avviato la propria migrazione verso soluzioni interamente digitali, e sono già molti i film realizzati interamente con le nuove tecnologie.

Una delle conseguenze dell'alleggerimento del lavoro di ripresa è, ad esempio, una ritrovata enfasi della dimensione performativa del regista e dell'attore.

Nel corso della nostra indagine tenteremo di dimostrare come il cinema digitale permetta agli autori maggiore libertà espressiva e consenta una migliore esperienza lavorativa, garantendo un maggiore controllo del lavoro in ogni sua fase, con costi e tempi assai ridotti rispetto a quelli del cinema tradizionale.

 

Il secondo capitolo si soffermerà sulle nuove forme di distribuzione, che, tra tutte le fasi che costituiscono la filiera cinematografica, è quella che ha opposto la resistenza maggiore all'innovazione in favore delle tecnologie digitali.

In passato era possibile suddividere schematicamente l'industria del cinema in produzione, distribuzione ed esercizio. Quest'ultimo, inteso come esercizio di proiezione limitato alle sale cinematografiche, oggi si è ridotto di importanza, per via delle nuove e numerose possibilità di visione del prodotto cinematografico.

In aggiunta alla proiezione in una sala cinematografica, un film può adesso essere fruito tramite sistemi home video come il DVD e il Blu-Ray, o con trasmissione per TV standard, DTV o HDTV, o ancora sui microschermi della telefonia mobile UMTS, oltre che sullo schermo di un computer.

Ci occuperemo di indagare su come le tecnologie digitali promettano di rivoluzionare la proiezione in sala, segnando il bando definitivo della pellicola; osserveremo inoltre come il mercato dell'home video abbia incrementato la sua penetrazione tramite nuove tecnologie che fanno sì che lo spettatore si avvicini più agevolmente alla visione.

Osserveremo alcuni esempi di distribuzione di contenuti cinematografici via internet, così come casi di marketing alternativo per il cinema: una campagna promozionale appropriata può infatti produrre risultati eccellenti al box office, indipendentemente dal valore artistico del film promosso, mentre la promozione di un film sul web permette di rivolgersi a target altrimenti difficilmente raggiungibili, quali ad esempio il pubblico giovanile.

 

Nel terzo capitolo tenteremo di delineare il rapporto che intercorre tra il cinema e i suoi spettatori, ormai diverso per ognuna delle modalità di ricezione. Osserveremo come la sala cinematografica non costituisca più il luogo principe in cui godere di un film: un dato evidente degli ultimi anni è il passaggio da un tipo di fruizione collettiva del film, presso la sala di proiezione, a una fruizione più solitaria, dapprima domestica e familiare, legata ai sistemi home video, poi del tutto dislocata e individuale.

Dirigeremo poi la nostra ricerca verso le forme della pirateria audiovisiva industriale e della pirateria on-line di massa, cercando di ricostruire i movimenti operati dall’industria per fronteggiare tali questioni.

Presenteremo inoltre alcuni casi in cui lo spettatore riveste il ruolo di produttore di contenuti: l'abbassamento dei prezzi e la facilità di reperimento di tecnologie audiovisive consumer, cioè destinate all'utente medio, ha comportato la definizione di un processo di progressiva «democratizzazione» di ripresa e montaggio, attività che in passato erano appannaggio esclusivo di studi e aziende specializzate.

Il cinema, nel rivolgersi ad un destinatario, pone a suo carico alcuni compiti: uno di questi è la decodifica del linguaggio filmico, che può estendersi su vari livelli di significato. Inoltre, la partecipazione dello spettatore è necessaria per completare il senso del film, attuando operazioni come la selezione delle informazioni e la loro interpretazione.

Esamineremo alcuni esempi di progetti di coinvolgimento dello spettatore nella co-produzione di film o documentari, anche laddove questi debbano ancora essere realizzati.

Il capitolo si concluderà con un’analisi dell’influenza reciproca tra l'interattività dei videogame e la narrazione tipica dei prodotti cinematografici. Il cinema è una macchina narrativa che conduce lo spettatore attraverso un racconto per successione di immagini: descriveremo come tale scambio unidirezionale di informazioni neghi allo spettatore qualunque interazione con il film. Egli non accredita più al cinema l'eccezionalità della visione, preferendo per tale scopo, ad esempio, la grafica ad alta definizione delle consolle di ultima generazione, o forme ludiche di realtà virtuale.

 

Il quarto capitolo si propone come un’analisi delle potenzialità estetiche del cinema digitale. La possibilità di riprodurre il reale in modo iperrealistico, o di generare elementi che non siano riprese dal vero, dona all'immagine digitale una maggiore capacità espressiva. Per gli autori aumentano, di conseguenza, le possibilità di manipolazione delle immagini, che, non avendo necessariamente un referente concreto, si prestano alla rielaborazione del loro significato.

Esporremo alcune tra le possibilità creative offerte dalla CGI, Computer-generated imagery, l'immagine sintetica che integra o sostituisce la ripresa dal vero.

Il grado di fotorealismo che è oggi possibile ottenere consente, oltre alla riproduzione di immagini naturali, anche la generazione di immagini che non abbiano un referente reale. È allora possibile creare l'inesistente, metterlo in scena come se fosse ripreso dal vivo.

 

Analizzeremo le diverse tipologie di intervento digitale che è possibile effettuare sul film, ponendo particolare attenzione ai diversi usi degli effetti speciali, evidenziando come essi si possano differenziare in relazione allo spettatore.

Ad un certo livello di intervento, le riprese, necessarie ma non più sufficienti a restituire l'immagine desiderata, possono oggi essere considerate come semplici parti di un processo ben più elaborato. Ciò che si ottiene in sede di ripresa è materiale utile per la manipolazione digitale perché componibile, scalabile e replicabile.

Indagheremo inoltre sull’impiego di attori virtuali, cercando di evidenziare i vantaggi e i limiti di tali operazioni.

Osserveremo inoltre come, alla luce delle possibili modificazioni del corpo apportate dall'applicazione di protesi digitali, il ruolo dell'attore in carne ed ossa stia subendo un deciso ridimensionamento.

 

Concluderemo infine la nostra ricerca osservando alcuni casi particolarmente significativi di film girati interamente con tecnologie digitali.

Il digitale, nella forma delle economiche videocamere palmari, sembra finalmente realizzare quella nozione di caméra-stylo teorizzata da Alexandre Astruc, secondo cui i registi dovevano usare la cinepresa nello stesso modo in cui uno scrittore tiene in mano una penna.

Intendiamo infine sostenere che il cinema, tecnologia vecchia di cento anni, sia inevitabilmente destinato ad essere modificato in ogni suo aspetto dalla rivoluzione apportata dalle tecnologie digitali.

L’integrazione sempre maggiore del digitale nella vita quotidiana fa sì che spettatore e film si avvicinino. La visione è portata fuori dalla sala di proiezione, mentre la promozione e la discussione sul film raggiungono nuovi spazi per la comunicazione.

Le innovazioni tecnologiche derivate dall’impiego del digitale non si esauriscono su un livello strettamente tecnico, costituendo invece la base di partenza per nuove forme espressive, nell’espansione del linguaggio cinematografico. Crediamo quindi che il digitale, affrancando l’immagine da un referente reale, renda il cinema più vicino alla sua definizione di «macchina narrativa» di quanto non fosse in passato.

I – Palingenesi delle immagini in movimento

Nel corso di questo capitolo si ripercorreranno le evoluzioni che il cinema ha subito e le diverse forme che esso ha assunto, tentando di isolarne le caratteristiche sempre ricorrenti. Si indagherà su come le innovazioni tecnologiche comportino sempre modificazioni del modus operandi del cinema, e sugli stravolgimenti che il cinema digitale comporta per l’apparato produttivo più tradizionale. Dall’indagine si evincerà che rivoluzioni della stessa portata si siano già manifestate in passato, osservando quali disagi e quali vantaggi esse abbiano comportato.

1.1 Cinema come immagini in movimento

Oltre cento anni fa le prime proiezioni pubbliche di immagini in movimento destavano grande stupore e apparivano magie meravigliose, come accadeva per tutte le tecnologie all’epoca ignote.

Il cinema ha dovuto opporre una lunga resistenza a chi si opponeva al nuovo mezzo, in principio mal visto perché nella riproduzione delle loro azioni i soggetti, senza più colore né suono, apparivano come ombre.

Le innovazioni tecnologiche successive hanno poi risolto in due momenti diversi il problema della mancanza di sonoro e di colore, sconvolgendo ogni volta non solo le modalità di produzione, ma anche il linguaggio dei film, e più in generale, il senso stesso del fare cinema.

Oggi il cinema, guadagnato ormai il grado di settima arte, permette agli autori la codificazione di idee articolate in immagini in movimento. Il risultato è spesso assai lontano dal cinema delle origini, e l'unico elemento in comune emerge dal fatto che, in entrambi i casi, si tratta di immagini in movimento che raccontano o descrivono.

Numerose esperienze precinematografiche come il fenachistiscopio, il praxinoscopio o il cinetoscopio, rientrano tutte in questa definizione. Tali esperimenti con le immagini però rimasero sempre relegati al ruolo di intrattenimento per i ceti inferiori della popolazione, per gli analfabeti e per chi risultava incapace di godere del piacere intellettuale di una narrazione elaborata.

Così, gli spettatori delle prime immagini in movimento avevano a che fare perlopiù con divertenti figure danzanti e donne disinibite.

Il cinema, nella sua evoluzione, si è allontanato molto da questo stadio primordiale, che però, per un bizzarro ciclo storico, si ripresenta oggi sotto diverse forme, come quella delle GIF animate, le immagini cicliche dei siti web, e i navigatori di oggi, come gli spettatori dell’ottocentesco zoetrope hanno a che fare con pupazzi ballerini e signorine ammiccanti.

 

Lo scrittore francese René Barjavel, conosciuto soprattutto per i suoi romanzi di fantascienza, ripercorre così la nascita di uno dei dispositivi precinematografici:

Un giorno radioso dell'estate del 1829, un giovane professore belga, Joseph Plateau, la testa orgogliosamente alzata verso il sole, fissò il re del cielo, occhi negli occhi, per 25 secondi.
La retina bruciata, dovette rimanere per settimane chiuso in una camera buia per divenire, qualche anno piu tardi, completamente cieco. Ma, nel frattempo, aveva inventato il fenakistoscopio, primo antenato del cinema. Questo strumento dal nome spinoso era un semplice disco di cartone. Su una faccia era disegnata una serie di silhouette rappresentanti le diverse fasi del movimento di un soggetto: acrobata, sciatore, danzatrice. Delle fessure erano intagliate in questo disco. Occorreva porsi davanti a uno specchio, il lato del disco con i disegni di fronte allo specchio, far girare il disco, guardare lo scorrere delle immagini attraverso le fessure. Si vedeva allora lo sciatore sciare, la danzatrice ballare e l'acrobata fare la ruota. Il fenakistoscopio metteva così in evidenza la persistenza delle immagini sulla retina, persistenza che Plateau aveva provato a spese della vista, e la cui dimostrazione avrebbe permesso tutte le ricerche che, sessant'anni dopo, avrebbero portato al cinematografo dei fratelli Lumière.[1]

Lo studio e la comprensione del fenomeno della persistenza retinica sono, secondo i due teorici del cinema americani David Bordwell e Kristin Thompson, il primo di cinque presupposti tecnici alla nascita del cinema.[2]

Nella loro Storia del cinema e dei film essi ricordano come i primissimi film fossero perlopiù vedute e panorami, non opere di finzione. L'azienda dei fratelli Lumière si era specializzata nella realizzazione di questo tipo di prodotto, tranche de vie, cinema d'attualità più vicino alla cronaca che alla narrazione. Saranno poi Georges Méliès, la Pathé Frères ed i loro concorrenti coevi ad introdurre sul mercato un grande assortimento di performance teatrali e acrobatiche filmate, gag e storielle. Le potenzialità degli strumenti di riproduzione delle immagini stimolavano l'impulso produttivo degli autori del tempo, sia quando mettevano in scena storie di finzione, sia che riportassero fatti di cronaca.

 

Fin dall’inizio si è manifestato negli spettatori il fenomeno della sospensione dell'incredulità, per cui ciò che veniva visto nel buio della sala o della cabina di visione era considerato sempre reale ed esistente, e non soltanto verosimile. L'immagine dell'arrivo di un treno faceva quindi temere agli spettatori per la propria incolumità.

Il cinema era già immagini in movimento che raccontavano una storia.

 

Lo studioso di cinema Francesco Casetti sottolinea l'aspetto narrativo della produzione di immagini:

[...] se si rimonta alle origini del mezzo si vede che esso ha scelto fin da subito di presentarsi come un dispositivo fabulatorio più che come una macchina ottica, di "raccontare" il reale più che di documentarlo. L'effetto è di fare del cinema qualcosa di "naturalmente" narrativo: un luogo in cui questa specifica dimensione si confonde con il tutto.[3]

Oltre alla connessione in chiave narratologica, è possibile valutare l'oggetto cinema da una prospettiva diversa, e isolare così il vero elemento caratterizzante il cinema in tutte le sue forme: il movimento delle immagini.

Thomas Edison e William Dickson opposero al cinématographe Lumière (il cui nome significa letteralmente scrittura del movimento) il proprio strumento di proiezione, chiamandolo vitascope (visione della vita).[4]

Presumibilmente, per lo spettatore le due tecnologie non erano differenti: in entrambi i casi, egli osservava delle immagini muoversi sullo schermo.

A tal proposito, è esplicativo un brano di Lev Manovich, professore di Arti visive presso la University of California:

 

Spettatori e critici assimilano il cinema all’arte della narrazione e quindi i nuovi mezzi digitali sono visti come lo strumento capace di rinnovare il modo in cui il cinema racconta storie. [...] Come testimoniato dai nomi originali (kinetoscopio, cinematografo, moving pictures) il cinema è stato definito, sin dalla nascita, come arte del movimento, l’arte che per prima era riuscita a creare una illusione efficace della realtà dinamica. Se studiamo il cinema in questi termini (e non come l’arte della narrazione audiovisiva, né come l’arte delle immagini proiettate, né tantomeno come arte dello spettacolo di massa), balza subito agli occhi la continuità che lo lega alle tecniche precedenti di costruzione e montaggio delle immagini in movimento.[5]

La correlazione evidenziata da Manovich vale proiettandosi in avanti nel tempo, e oltre alla ripresa dal vero, arriva a toccare i più recenti sistemi per la produzione di immagini in movimento, edificati sulle capacità dell'elaborazione informatica. Possono allora essere considerate cinema, perché immagini in movimento, le tecniche di ripresa a metà strada tra il passo uno e la ripresa dal vero, come la pixilation; l'animazione, con la tecnica detta machinima, di figure virtuali estrapolate dai videogame per cui erano state realizzate; i cortometraggi animati per il web realizzati con tecnologia Flash, simili alle prime animazioni cutout, di carta ritagliata ed animata a passo uno, una tecnica in cui fu maestro l'italiano Lele Luzzati.

1.2 Trascorsi rivoluzionari del cinema

L’avvento delle tecnologie digitali nell’industria cinematografica comporta una rivoluzione delle pratiche e delle mansioni, alla pari di rivoluzioni passate che allo stesso modo hanno condotto il cinema lungo le tante fasi della sua evoluzione. Si tratta di cambiamenti da non ascrivere esclusivamente al piano tecnologico, ma che si estendono dallo sviluppo del linguaggio e dello stile ad una maggiore capacità di interazione con la sensibilità dello spettatore.

L’industria internazionale del cinema si è trovata spesso a dover affrontare delle scelte, ad esempio decidendo per l’adozione di uno standard piuttosto che un altro. La standardizzazione del formato a 35 millimetri si è raggiunta nel 1909, ma quando si rese poi necessario lasciare spazio alla colonna sonora, si adottò universalmente il formato detto Academy Standard. L’intero sistema tecnico è stato di volta in volta adattato alle nuove esigenze, attraverso uno sviluppo tecnologico lento ma progressivo. Le rivoluzioni del cinema rompono di netto la continuità con le metodologie precedenti, cambiando la forma e la sostanza dei film:

Mentre impariamo che la tecnica è un modo di fare qualcosa, non la cosa che si fa, cominciamo a capire: a capire che ci muoviamo ancora con i tratti dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un'organizzazione di significati, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona.[6]

Dalla seconda metà degli anni Venti, in America e in Europa si brevettano invenzioni che rendono possibile registrare il sonoro per poi riprodurlo in sincronia con le immagini. È il caso di metodi come il Vitaphone, collaudato dalla Warner Bros. che registrava su dischi magnetici, o come il Movietone della Fox, basato su pellicola.

Prima di allora, la proiezione di film era accompagnata dall'esecuzione di musica dal vivo, pratica che quindi finì per divenire non conveniente.

Il parlato ebbe immediatamente grande successo tra gli spettatori, tanto che le sale cinematografiche vennero aggiornate con le nuove attrezzature piuttosto in fretta: «nel 1932, la conversione al sonoro era di fatto compiuta in tutti gli Stati Uniti.»[7]

 

I film godevano ora di un potente strumento di riproduzione della realtà che rafforzava le immagini con la sua ricchezza espressiva, insidiando direttamente le altre arti dotate della parola come il teatro, la radio e la letteratura.

Girare un film parlato comportava nuove difficoltà, sia nella recitazione che nell'uso di una specifica lingua, d'ostacolo per le esportazioni. Fu problematico comprendere inizialmente come dovessero svolgersi le riprese in presenza dei nuovi membri del cast tecnico.

Tali cambiamenti richiedevano alla creatività degli autori di avventurarsi in territori inesplorati. Così non fece Charlie Chaplin, come ci ricorda Antonio Costa:

Luci della città (1931) non è un film "parlato" come gli altri che si girano a Hollywood lo stesso anno. Pur non rifiutando la musica e le possibilità narrative del suono, il film è ancora strutturato secondo i canoni espressivi dell'"arte muta".[8]

René Barjavel esprime così la sua delusione per le novità tanto irrispettose dello stile classico:

[…] niente di quel che esce, dolcemente o con grande fracasso, dal magazzino di parole che gli uomini amano usare al posto del loro cervello, nessuna di queste parole sussurrate o urlate ci è stata risparmiata. Abbiamo udito dei personaggi dire “Me ne vado” quando se ne andavano ed eravamo capaci di vederlo, degli innamorati cantare bocca a bocca invece di abbracciarsi, dei morenti prolungare la loro agonia per deporre qualche fiore di retorica.[9]

Il colore, dopo il suono, fu un ulteriore arrivo imprevisto che svelò l'impreparazione di Hollywood di fronte ai nuovi strumenti.

Già all’inizio del secolo scorso esistevano tecniche di colorazione della pellicola in bianco e nero: imbibizioni, viraggi, i procedimenti Pathécolor, Dufaycolor e simili.

I colori erano scelti in base all'atmosfera che si voleva suggerire o al momento del giorno individuato nella narrazione. In alcuni casi, come nel film Maciste all'inferno (Guido Brignone, 1926), si fece della colorazione un uso fortemente emotivo.

Dal 1923 Hollywood adotta in fretta il sistema Technicolor con I dieci comandamenti (The Ten Commandments, Cecil B. DeMille, 1923) e poco dopo in alcuni segmenti di Ben Hur (Ben-Hur, Fred Niblo, 1925).

Il rischio reale che il cinema correva in quegli anni era di ridursi a cartolina illustrata, o magari, sotto l'influsso della pittura, a dipinto animato.

Eppure oggi tale rischio appare azzerato, tanto che film moderni in bianco e nero sono opere rare, e non si può più dire che il cinema a colori riservi particolari attenzioni narcisistiche ai suoi cromatismi.

 

Una terza rivoluzione è identificabile con l'introduzione dell'elettronica e di tecnologie televisive nel processo produttivo cinematografico. Innovazioni silenziose, che però toccano tutti gli aspetti della lavorazione di un film, della sua archiviazione e trasmissione.

Sono gli anni della proliferazione di svariati formati elettronici analogici, professionali e di uso domestico, come Betacam (lanciato nel 1982 da Sony) o VHS (JVC, 1976), che aprirà la via dell'home video e della fruizione domestica, decentrata, del film.

Gli effetti speciali elettronici trovano nei film per ragazzi la loro più elaborata applicazione, come nel caso di E.T.: L'extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, Steven Spielberg, 1982) o Tron (Steven Lisberger, 1982). Nello stesso periodo si rafforza il movimento della videoarte, che già operava su circuiti lontani da quello cinematografico, e che vede come suoi esponenti di spicco artisti come Bill Viola, Gene Youngblood, Zbigniew Rybczyński.

 

Le scintille che hanno innescato le rivoluzioni del sonoro, del colore e dell'elettronica scaturivano da soluzioni tecniche. I nuovi strumenti nel soddisfare esigenze artistiche arrivavano a creare nuove forme di linguaggio cinematografico.

Oggi il cinema si trova nuovamente in bilico tra una nuova tagliente tecnologia e un sistema produttivo collaudato ma inadeguato alle nuove esigenze. Il nuovo apparato tecnologico richiede che il cinema vi si adatti, e che nel farlo si reinventi del tutto.

Alessandro Amaducci, studioso e performer di videoarte, scrive queste parole sotto al titolo di Film is dead:

Il digitale ha rimesso in discussione molte cose, tra cui anche la distinzione tra cinema, televisione e video, e soprattutto tra tradizione e sperimentazione. Sono troppi gli incroci possibili per poter delineare una qualsiasi classificazione. Il livello di osmosi è talmente alto che non si può fare altro che parlare di «immagini in movimento». Ma non si tratta di un processo senza resistenze.[10]

Il cinema convenzionale è ancora vitale e produttivo, ma sono in molti ad auspicare un drastico cambio di rotta generale.

Se l'evoluzione del cinema classico ha elaborato una retorica capace di descrivere psicologie e moti interiori[11], lo sconvolgimento digitale può vanificare l'esperienza di cento anni, costringendoci a ripartire da capo, dall'immagine che si muove.

1.3 Il cinema diventa digitale

Il cinema tradizionale, su un piano tecnico, è il risultato della combinazione di un processo fotochimico con uno fisiologico. Il primo è l'impressione dell'emulsione fotosensibile che riveste la pellicola, volto ad ottenere una successione di singoli fotogrammi. Se questi vengono riprodotti ad una data velocità si induce il secondo processo, legato alla percezione umana, della persistenza retinica, grazie al quale l'azione registrata ci appare continua. Il cinema digitale mantiene tale espediente per riprodurre il movimento, ma nel registrare le informazioni relative alla luce, in fase di ripresa, sostituisce la cinepresa a pellicola con la videocamera provvista di un sensore CCD, ovvero Charge-Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica. Questo circuito integrato è capace di convertire le radiazioni luminose in impulsi elettrici, che vengono subito ridotti a bit. Contrazione di binary digit, il bit è l'unità di misura minima, il componente atomico di qualsiasi dato digitale. Il risultato della ripresa è dunque una lunga sequenza composta solo da bit dal valore di 0 o 1, una forma illeggibile per l'essere umano ma necessaria perché i dati possano essere elaborati da un computer.

 

Walter Murch, vincitore di due premi Oscar nel 1996 per il missaggio audio e per il montaggio de Il paziente inglese (The English Patient, Anthony Minghella 1996), è stato il primo montatore a ricevere un premio per un film montato e mixato in digitale, con il sistema Avid.

Murch, che nel corso della sua carriera ha operato su diversi sistemi di montaggio (meccanici, elettronici analogici ed elettronici digitali), e che ben conosce i vantaggi e i limiti propri delle nuove tecnologie, si augura che il cinema possa presto completare la transizione di tutti i suoi settori verso le tecnologie digitali, a vantaggio di una totale integrazione tra le varie mansioni e tra gli strumenti.

Riguardo all’attuale condizione "ibrida" del cinema, che ha abbracciato il digitale in molti suoi settori ma che resta spesso ancora legata al supporto fisico della pellicola, Murch si esprime così:

Per quanto sbalorditivo possa essere vedere delle immagini proiettate in digitale (altrettanto o anche più definite della pellicola 35mm, senza nessuno di quei graffi, o sporcizie, o tremolii che infestano anche le prime copie di una stampa a 35mm) la verità è che l'industria cinematografica si è per 15 anni inesorabilmente digitalizzata dall'interno. I trionfi degli effetti speciali in digitale erano ovviamente già noti prima della loro apoteosi in Jurassic Park, Titanic, Star Wars - Episodio I, e Matrix. Ma l'arrivo della proiezione digitale scatenerà la capitolazione finale degli ultimi due capisaldi dell'eredità meccanico-analogica novecentesca della pellicola. Uno è la proiezione, alla fine del ciclo; l'altro è la fotografia originale, che dà origine all'intero processo. Attualmente, l'industria del cinema è un sandwich digitale tra due fette di pane analogico.[12]

La ripresa e la proiezione, i due momenti toccati dalla presenza della pellicola, hanno già avviato la propria migrazione verso soluzioni interamente digitali, e sono già molti i film realizzati interamente con le nuove tecnologie.

Gli autori che hanno intrapreso questo percorso, inevitabilmente pieno di incertezze circa la resa finale per mancanza di esperienze guida legate all'uso delle nuove tecnologie, possono essere ascritti alla cerchia degli avanguardisti e degli sperimentatori.

 

Antonio Costa già a metà degli anni Ottanta riportava come la tecnologia interna all'industria cinematografica avesse sempre permesso agli autori di fuoruscire dagli standard lavorativi, mediante processi e tecniche innovative che influiscono pesantemente sul linguaggio del film e sulla sua valenza come espressione artistica:

Sono semmai innovazioni meno spettacolari che gettano le premesse per lo sviluppo di nuovi usi e di nuove configurazioni del linguaggio cinematografico. Dagli anni trenta ai sessanta tali evoluzioni si succedono incessantemente. [...] La diffusione di cineprese più maneggevoli e leggere, del formato ridotto e il progressivo miglioramento delle tecniche di ripresa diretta del suono favoriscono la fuoriuscita dagli studios. In sintesi, tali evoluzioni tecnologiche favoriscono la rottura degli schemi tradizionali (produttivi ed espressivi) e la diffusione di usi del cinema che in precedenza erano stati fatti solo eccezionalmente.[13]

Una delle conseguenze dell'alleggerimento del lavoro di ripresa è, ad esempio, una ritrovata enfasi della dimensione performativa del regista e dell'attore. Ci riserveremo di indagare più avanti, nel corso di questo lavoro, alcuni notevoli esempi al riguardo.

 

Le tecnologie "invisibili" non lasciano traccia di sè nel film finito, ma sono determinanti per la sua realizzazione. È il caso di film come Un sogno lungo un giorno (One for the heart, 1982), musical sperimentale girato interamente in studio da Francis Ford Coppola con l'ausilio di telecamere e monitor affiancati alla macchina da presa, pre-visualizzando l'azione e affinando l'inquadratura e le scelte del regista. Oggi i monitor di controllo sono presenti su ogni set.

Anche le innovazioni più spettacolari, quelle che permettono all'impossibile di visualizzarsi sullo schermo, arrivano a sconvolgere le modalità di produzione e le attese degli spettatori, costituendo a volte la maggiore attrazione di molti titoli contemporanei.

 

Andrea Romeo, curatore delle prime edizioni del Future Film Festival, uno dei principali festival cinematografici europei dedicati all'animazione, tradizionale e digitale, e agli effetti speciali, nota che il digitale negli effetti speciali consente di lavorare con immagini indipendentemente da ciò che è possibile porre materialmente davanti alla macchina da presa:

La visionarietà degli autori cinematografici quindi ha da sempre dovuto tenere in considerazione quelle che erano le effettive possibilità di manipolare cinematograficamente il profilmico disponibile per ottenere l'immagine voluta. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie di animazione digitale, dagli inizi degli anni Ottanta, questa "limitazione" è poco a poco venuta a cadere; utilizzando i mezzi informatici per la creazione e la manipolazione dell'immagine infatti, i creatori di cinema hanno cominciato a poter realizzare parti dei loro film, o anche solo sezioni dei loro fotogrammi, prescindendo dalla realtà profilmica che avevano a disposizione. La grande rivoluzione del dispositivo digitale è infatti quella di ridurre le immagini a un insieme, più o meno fitto, di informazioni (pixel), che possono essere isolate una dall'altra e mutate senza che ciò influisca sulle informazioni contigue. [...] Grazie alla discrezione, questa grande risorsa che è alla base del nuovo dispositivo digitale, i registi cinematografici hanno potuto sostituire parte delle immagini da loro create con immagini digitali trasportate sulla pellicola a una definizione tale da non rendere evidente la discontinuità tra fotografico e digitale.[14]

In molti casi, il digitale ha semplicemente soppiantato e reso obsolete tecnologie preesistenti: è così diventato sconveniente costruire e riprendere pupazzi robotici (animatronics), come quello impiegato per E.T. l'extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, Steven Spielberg 1982), così come la ricostruzione di veicoli o astronavi, una volta realizzati in scala, oggi vengono più facilmente ricostruiti con un software di modellazione tridimensionale.

 

Il cinema è sempre stato il regno del meraviglioso: il livello di fotorealismo è sempre proporzionato alla capacità del pubblico di percepire il trucco cinematografico come tale.

Lo scimmione del King Kong del 1933 (King Kong, Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack), realizzato con un modellino animato con la tecnica della stop-motion, era così credibile che alcuni spettatori fuggirono dalla sala, presi dal panico. Nel 2005 Peter Jackson ha diretto il sequel del film, in cui Kong è animato con la tecnica del motion capture, che fa corrispondere ai movimenti di un attore in carne ed ossa, vestito di una tuta dotata di sensori, i movimenti del modello tridimensionale al computer. L'effetto, arricchito da una grande espressività facciale del modello 3D, è perfettamente fotorealistico agli occhi dello spettatore di oggi.

1.4 La malleabilità dei numeri

Il trattamento del prodotto cinematografico prevede diversi stadi di lavorazione, ed ognuno di essi può essere potenziato dall'uso delle tecnologie digitali, impiegabili per catturare, archiviare e trasmettere immagini in movimento in alta risoluzione.

Non si è ancora arrivati alla definizione di una metodologia procedurale standard, per cui ogni film portatore di innovazioni ha seguito un suo percorso, senza però definire linee guida sugli strumenti da utilizzare o su soluzioni da elevare a modello. L'esperienza accumulata in questi primi anni di rodaggio del cinema digitale non è comparabile a quella, centenaria, dell'industria cinematografica pre-digitale.

Alcuni cineasti hanno però recepito il messaggio: il digitale dona loro maggiore libertà espressiva e offre una migliore esperienza lavorativa, garantendo grande controllo del lavoro in ogni sua fase e costi e tempi assai ridotti rispetto a quelli del cinema tradizionale.

La quantità di combinazioni possibili, strumenti e soluzioni tecniche pone il regista e il direttore della fotografia nella stessa situazione di un pittore che ha a disposizione un'intera coloreria, diviso tra la tentazione di usare olii, acquarelli e acrilici sulla stessa tela, e l'esigenza di mantenere un codice stilistico coerente. La natura numerica del dato digitale si presta bene a manipolazioni, anche distruttive, dell'immagine ripresa: mescolanze tra attori in carne ed ossa e personaggi generati dal computer, moltiplicazione di elementi sullo schermo, ricostruzione in computergrafica di scenari fotorealistici o del tutto fantastici. «Per la prima volta, se qualcosa può essere immaginata, può diventare un 'film'.»[15]

 

Effetti notevoli di CGI (Computer-generated imagery, immagini generate al computer) si ritrovano in Forrest Gump (Forrest Gump, Robert Zemeckis, 1994). Il film, vincitore di un Oscar per gli effetti speciali, si apre su una carrellata ad inseguire il volo di una piuma; nel corso della storia poi, il protagonista incontra e stringe la mano a John F. Kennedy. Andrea Romeo commenta così questo espediente tecnico-narrativo:

Sono state dunque ricreate al computer la mano di Hanks e quella del Presidente, e successivamente animate in una stretta forte e veloce in modo da non far comparire il trucco. Siamo di fronte questa volta a un esempio molto riuscito di fotorealismo, in cui l'immagine fotografica viene sfilacciata in tutte le sue componenti per poi essere ricomposta parte per parte. Il fotografico viene osservato al microscopio sotto i ferri del computer, per poterne carpire l'essenza e riprodurla con immagini di sintesi, ma tutto ciò viene fatto al servizio della trama e in funzione di un'esigenza narrativa, così da simulare con l'animazione digitale la pellicola cinematografica e da rendere allo stesso tempo tutti i personaggi, sia quelli storici che gli attori, dei grappoli di pixel.[16]

La grana fotografica deve quindi essere traslata in pixel, in dati digitali, per poter essere lavorata e miscelata ad altri elementi immaginifici.

La natura digitale degli elementi multimediali, siano essi visivi, acustici, testuali, figure solide o altro ancora, è il collante che li rende intercompatibili.

Andrea Balzola, docente presso l'Università degli studi di Roma “La Sapienza”, traccia un importante filo conduttore tra tutte le forme del multimediale.

Secondo Balzola, l'applicazione ideale delle arti multimediali si ha con il digitale, tecnologia necessaria alla loro piena realizzazione. Tanto necessaria da costituire lo specifico multimediale, ciò che lo differenzia caratterialmente dall'arte non riproducibile attraverso il sistema digitale:

L'idea di multimedialità precede l'innovazione tecnologica che la concretizza: il digitale. Il digitale diventa quindi lo specifico della multimedialità contemporanea, ciò che segna la discontinuità con lo specifico delle tecniche fotografiche, cinematografiche, video e audio elettroniche analogiche, e nel contempo ridefinisce il loro statuto linguistico. La possibilità di sintesi numerica, quindi di trasferimento, elaborazione e interazione (interdipendenza) di qualsiasi testo, immagine o suono, nell'ambito dello stesso metamedium, indipendentemente dalla fonte originaria (che diventa una sua «periferica»), segna la terza «rivoluzione» nell'ambito del rapporto tra arte, comunicazione e tecnica. La prima rivoluzione è stata quella della riproducibilità tecnica (dalla stampa alla fotografia e al cinema), descritta da Walter Benjamin negli anni Trenta; la seconda rivoluzione si è realizzata con la trasmissione e la riproducibilità tecnica a distanza in diretta (telegrafo, telefono, radio, televisione), studiata nei suoi effetti psicologici e sociali da Marshall McLuhan nei primi anni Sessanta; la terza rivoluzione, introdotta alla fine del Novecento, è appunto quella che alcuni hanno definito, parafrasando Benjamin, della riproducibilità digitale (F. Ciotti e G. Roncaglia, 2000) e che noi preferiamo definire la sintesi digitale connettiva (computer e rete).[17]

La malleabilità del film per mezzo del computer permette di ottenere in pochi istanti ciò che i laboratori di stampa impiegavano molto tempo a realizzare, come le alterazioni cromatiche o le dissolvenze incrociate, e questo con un controllo totale e immediato, lasciando ampio spazio alla sperimentazione e all'uso, talvolta all'abuso, di tali espedienti tecnici.

Tra tutte le fasi del processo di lavorazione di un film, la prima ad aver sostituito i suoi criteri tradizionali per una nuova metodologia integrata con la tecnologia digitale è stata la post-produzione.

La prima operazione della post-produzione digitale è l'acquisizione, per i film girati in pellicola, o la cattura, per le immagini riprese da una camera digitale. Sulle immagini digitali vengono poi effettuate le operazioni di editing, compositing ed elaborazione di effetti speciali, correzione del colore, riduzione del rumore visivo e della grana.

Walter Murch individua le migliorìe apportate dai sistemi di montaggio non lineari: si guadagna maggiore velocità, grazie all'accesso diretto istantaneo al materiale; è ridotto il costo per la copia lavoro, che si può anche non stampare; molti processi che richiedevano assistenti al montaggio sono ora eseguiti dal computer, o non sono più necessari; il montaggio è realizzato senza distruggere il filmato nella forma originaria del girato; l'immagine elettronica non si usura con la riproduzione; gli effetti speciali elettronici vengono applicati istantaneamente; il regista può vedere con praticità diverse versioni di montaggio; è possibile sincronizzare infinite tracce audio al video, con una precisione un tempo impensabile.

Il flusso di lavoro tradizionale, in post-produzione, prevede la creazione dell'intermediario, una pellicola impressionata tramite il processo fotochimico dell'esposizione a contatto con il negativo, da cui poi far derivare le copie per la distribuzione nelle sale.

Il risultato del lavoro di post-produzione digitale è invece un intermediario digitale (DI, digital intermediate), capace di generare un singolo master universale, una versione del film indipendente dalla risoluzione, che permette di ottenere copie del film per l'intera filiera distributiva: pellicola tradizionale, DVD, TV standard e HDTV, DTV, Digital Cinema, fino ai microschermi della telefonia mobile.

L'introduzione del singolo master universale non è quindi dovuta esclusivamente al fatto che esso rappresenti una più flessibile alternativa al metodo tradizionale, ma anche alla sua conformità con una nuova visione multimediale del medium cinema.

1.5 Il film non ha più un corpo

Il film nella sua forma finita, oggi, non è più solo una pellicola.

La moltitudine di supporti per la distribuzione ha spezzato l'associazione tra il «contenuto» del film, ovvero le immagini che lo compongono, e il suo supporto, tradizionalmente negativi e positivi in pellicola, ora dischi ottici, schede di memoria a stato solido, hard disk o nastri magnetici.

"Film", il termine inglese che indica la "pellicola", è divenuto ormai obsoleto.

Il film è trasferibile su supporti diversi senza perdita di dettaglio, a differenza della stampa per contatto del positivo con il negativo che causava aumento della grana e il rischio di graffi e sporcizie.

Lo stesso DVD può contenere più film, la memoria di un computer può ospitarne anche centinaia, e ormai non esiste più un solo oggetto fisico direttamente identificabile con il film. Può invece esistere un suo analogo virtuale nell'interfaccia grafica di un computer, sotto forma di icona con cui l'utente deve interagire per lanciare il filmato. Tale associazione cambia però col cambiare del sistema operativo su cui si trasporta il film.

Il film non ha più un corpo, è da identificare con le sue stesse immagini, con la sua anima. «Entra» in un iPod dopo essere uscito da un DVD; una scena scaricata da internet si può copiare su un cellulare; ogni formato video è convertibile in un altro.

 

Il cinema condivide alcuni principi fondanti con un altro settore dell'industria delle arti, per molti aspetti analogo: la fotografia.

Da diversi anni ormai la pellicola fotografica è caduta in disuso, soppiantata da soluzioni digitali, e questo sia in ambito amatoriale che in contesti professionali. Fotocamere digitali accessibili a chiunque permettono di scattare fotografie senza curarsi del costo di stampa, e registrare su schede di memoria migliaia di immagini, da riversare e rivedere su computer. Le fotografie vengono poi condivise o stampate, perché non si è sicuri di possedere una copia della fotografia se non la si stampa, estraendola dallo spazio virtuale del computer, da cui ogni documento prima o poi viene cancellato.

Il film in pellicola è ancora identificato col suo supporto come lo è una fotografia con la sua stampa su carta: l'immagine che si può vedere nella fotografia e l'oggetto fotografia sono la stessa cosa.

Ogni associazione tra contenuto e supporto è però inevitabilmente destinata a cadere, sia che si tratti di film, fotografie, testi o audio.

Un’analoga operazione di sorpasso tecnologico è avvenuta in occasione dell’abbandono del disco in vinile in favore del Compact Disc, a cominciare dal 1982. Sebbene da quel momento in poi la musica immessa sul mercato è stata tutta in alta qualità digitale, inizialmente alcuni appassionati rimpiangevano il vecchio supporto, a loro dire capace di restituire un suono più caldo e pastoso. Ma si trattava solo di una questione di abitudine perché l’ascolto di un vinile oggi ci appare sporcato da troppi fruscii e degradazioni.

Vinile o CD, si tratta comunque di un supporto fisico, di un «disco». Il motivo per cui il paragone con il film è davvero calzante, è che anche la musica, con largo anticipo, ha lasciato il suo corpo, il disco, per assumere le svariate forme che il digitale supporta. Dal file MP3 per lettori portatili alla suoneria per cellulari, al file per i software di karaoke.

Si tratta di forme liquide che possono nuovamente essere «congelate» in un CD.

 

Il film, la fotografia o la canzone, non solo hanno cento corpi, diversi per ogni supporto che li contiene, ma si potrebbe pensare che abbiano anche un’anima «corrotta» per via della loro natura digitale. Questo dubbio potrebbe nascere dalla consapevolezza che l’immagine in transito da un computer finisca sempre in qualche modo per essere «ritoccata».

Tralasciamo come le ottiche cinematografiche, le luci sul set, il montaggio, possano forse già essere considerati come un grande ritocco alla realtà per la messa in scena. Il Prof. Fabio Amerio, docente presso l'Accademia delle Belle Arti di Carrara, nonchè fotografo e studioso di arte multimediale, prende così posizione:

L'«Arte» perde la sua «aura» allorché la fotografia, già contaminata dalla tecnica ripetitiva, falsificatrice e aleatoria del mezzo, con l'introduzione del computer, offre sempre meno credibilità. [...] sarebbe come dire che la tipografia danneggia il libro perché i codici miniati del XII secolo sono più belli dell'Universale Economica degli anni Cinquanta.[18]

Quanto a lungo ancora saremo legati al corpo centenario del film, ai suoi graffi, alla sua grana?

II – La filiera audiovisiva

Il cinema è prima di tutto un'industria.

La California, che ha eletto Hollywood a suo centro produttivo, è il polo maggiore nel mercato internazionale dei film.

Attraverso il fenomeno che in microeconomia prende il nome di integrazione orizzontale, l'industria hollywoodiana riesce ad operare sul mercato americano ed estero, garantendosene la copertura.

Un approccio strategico complementare, messo in atto dalle multinazionali americane dell'entertainment, è quello definito integrazione verticale, che si verifica quando un'azienda mira a coprire il maggior numero possibile di processi all'interno della catena produttiva.

Questa soluzione, la stessa che ha portato in passato le major ad acquisire le licenze delle sale di proiezione, garantisce oggi grandi introiti attraverso abbigliamento, giocattoli, videogames, prodotti editoriali, tutti derivati dal bene principe, vale a dire il film.

 

Tra tutte le fasi che costituiscono la filiera cinematografica, è stata la distribuzione ad opporre la resistenza maggiore all'innovazione in favore delle tecnologie digitali.

Sebbene da tempo siano disponibili sistemi di proiezione digitale, l'industria cinematografica nel suo insieme sembra ancora frenare la possibilità di un'imminente transizione, per motivi che osserveremo più avanti.

Le sale sono ancora in maggioranza attrezzate con proiettori 35mm, e gli esercenti minori, incapaci di offrire quella varietà di prodotti e di opzioni che sarebbe invece permessa dalla distribuzione digitale, si trovano in una posizione di svantaggio rispetto alla soluzione accentratrice della multisala.

 

In passato era possibile suddividere schematicamente l'industria del cinema in produzione, distribuzione ed esercizio. Quest'ultimo, inteso come esercizio di proiezione limitato alle sale cinematografiche, oggi si è ridotto di importanza, per via delle nuove e numerose possibilità di visione del prodotto cinematografico.

In aggiunta alla proiezione in una sala cinematografica, un film può adesso essere fruito tramite sistemi home video come il DVD e il Blu-Ray, o con trasmissione per TV standard, DTV o HDTV, o ancora sui microschermi della telefonia mobile UMTS, oltre che sullo schermo di un computer.

 

Al momento si possono dunque distinguere tre macroforme: proiezione in sala, trasmissione televisiva e home video. Non affronteremo in questa sede la situazione del cinema trasmesso attraverso i canali televisivi terrestri o satellitari. Ci occuperemo invece di indagare su come le tecnologie digitali promettano di rivoluzionare la proiezione in sala, segnando il bando definitivo della pellicola; osserveremo inoltre come il mercato dell'home video abbia incrementato la sua penetrazione tramite nuove tecnologie che fanno sì che lo spettatore si avvicini più agevolmente alla visione.

 

2.1 Proiezione tradizionale e digitale

Per proiezione cinematografica si è sempre inteso quel procedimento, brevettato da Auguste e Louis Lumière nel 1884, che ha mantenuto inalterato da allora il proprio funzionamento di base: la pellicola fotochimica, composta da una sequenza ininterrotta di fotogrammi, scorre di fronte ad una fonte di luce che ne proietta l'immagine su uno schermo attraverso una lente, con una frequenza regolata da un meccanismo di avanzamento.

Nel corso degli anni si sono susseguiti nuovi procedimenti e miglioramenti mirati a risolvere i problemi delle prime pellicole, come l'alta infiammabilità, la fragilità e la scarsa persistenza nel tempo.

Sul finire del XX secolo, le cui immagini più significative sono state impressionate proprio su pellicola, si è avviato il dibattito intorno all'avvenuta obsolescenza di tale supporto.

La pellicola ha delle limitazioni congenite, connaturate al legame insolubile tra le immagini che contiene e il suo corpo materiale: l'oggetto film si usura ad ogni uso, non è garantito contro il tempo, tiene impressa la colonna sonora accanto alle immagini senza che esista la possibilità di particolari riadattamenti.

Inoltre la pellicola, raccolta in contenitori che le hanno conferito il soprannome di "pizza", deve essere consegnata via corriere espresso dai laboratori di stampa ai magazzini dei distributori, fino alle sale, da cui dovrà poi essere ritirata. Spedizione e stoccaggio hanno una certa incidenza sui costi complessivi che il distributore deve sostenere.

Il processo che permette al film di arrivare alle sale è detto distribuzione: il termine indica l'insieme di procedimenti e di attività di natura economica che trasportano il film dal suo luogo d'origine, ovvero la produzione, alla sua destinazione, vale a dire le sale e i luoghi del mercato dell'home video. La distribuzione non va quindi confusa con la semplice attività di consegna.[19]

La distribuzione di un film richiede quindi che sia fisicamente disponibile una copia del film per ogni schermo su cui lo stesso deve essere presentato.

Poiché il costo di stampa di ciascuna copia è elevato, oscillando in media tra i 1.500 e i 2.000 dollari, solitamente si stampano un numero limitato di copie. Per un film mainstream vengono in media spedite in tutto il mondo dalle 2.000 a alle 7.000 copie. La sola stampa delle pellicole ha un costo totale pari mediamente al 2-3% del totale degli incassi.[20]

Inoltre l'apparato distributivo richiede che le pellicole vengano spostate di sala in sala, seguendo un sistema di rotazione che spesso sfavorisce gli esercenti minori.

 

Tutte queste problematiche, in congiunzione con il perfezionamento delle tecniche di proiezione digitale, hanno dato inizio ad una progressiva diffusione di tali sistemi presso le sale cinematografiche.

Con l'espressione Digital Cinema, o D-cinema, si intende la distribuzione digitale di film in alta risoluzione destinati alle sale di proiezione – infatti la pellicola non è contemplata come supporto di distribuzione di prodotti digitali.

 

L'innovazione è resa possiblie grazie all'invenzione e al perfezionamento di diverse tecnologie per la proiezione di contenuti digitali. Le due maggiori sono la tecnologia micromeccanica DLP, Digital Light Processing, sviluppata da Texas Instruments, che si basa sull'impiego di microscopici specchi, e la D-ILA, Direct Drive Image Light Amplifier della JVC, che si fonda sull'elettrificazione di cristalli liquidi applicati ad un chip di silicone[21].

Tali sistemi trovano applicazione in proiettori cinematografici digitali reperibili sul mercato, come il DP100 prodotto da Barco e i proiettori Christie Digital, che utilizzano il DLP, o il DLA-HD2K JVC, basato su D-ILA.

 

La maggior parte dei proiettori esistenti raggiunge una risoluzione dell'immagine di 2K, valore corrispondente a 2.100.000 pixel.

La pellicola cinematografica, se portata dal sistema continuo dell'emulsione fotosensibile al sistema discreto della codifica digitale, possiede una definizione quantificabile in circa 12 milioni di pixel.[22]

Il superiore formato 4K, da 12.700.000 pixel, appare comunque in grado di eliminare il gap qualitativo con la pellicola.

 

Nel 2005 l'emittente televisiva giapponese NHK ha mostrato la qualità video di un nuovo proiettore 8K[23], che, restituendo una definizione di quattro volte superiore a quella della pellicola, rende la cinematografia capace di donare allo spettatore esperienze visive sinora inedite.

 

Anche la Eastman Kodak, attualmente il principale fornitore mondiale di pellicola, si è avvicinata al business del D-cinema, proponendo soluzioni informatiche di gestione della sala. L'azienda spende molto in ricerca perché, si può supporre, cerca per sè una rinnovata collocazione nel mutato panorama cinematografico, così come aveva già fatto nell'ambito di un altro settore in cui era leader, la pellicola fotografica. L'avvento del digitale nella fotografia ha spinto infatti la Kodak a diventare essa stessa produttrice di fotocamere digitali.

 

La diffusione dei primi proiettori digitali ha dovuto affrontare due notevoli ostacoli. Il primo risiede nella diffidenza verso la reale possibilità di eguagliare la qualità della pellicola. I continui miglioramenti tecnologici del D-cinema, messo alla prova anche di fronte alla stampa mondiale in manifestazioni autorevoli come il Sundance Film Festival[24], hanno ormai fugato il timore di una qualità inadeguata.

Il secondo impedimento è rappresentato dall'alto costo dell'aggiornamento tecnologico. Un sistema Barco completo dieci anni fa costava 250.000 euro; nel 2005 il prezzo era già sceso del 70%, raggiungendo 85.000 euro. Come dichiara il responsabile del marketing di Barco, fattori come l'uso di nuovi chip della Texas Instrument, un nuovo design modulare e lenti speciali hanno ridotto ulteriormente il costo di un sistema di nuova generazione.[25]

 

Il parco sale mondiale è stimato consistere in oltre 100.000 unità.

La crescita del D-cinema tra il dicembre del 2005 e lo stesso mese del 2006 era stata stimata del 168% in Europa, e del 1.031% negli Stati Uniti.[26]

Nell'ottobre 2007 la Texas Instruments ha festeggiato il raggiungimento della soglia delle 5.000 installazioni, in attesa di arrivare a 10.000 schermi digitali entro la fine del 2008.[27]

Una previsione matematica sulla diffusione nelle sale dei sistemi digitali, alla luce dei dati attuali sulla loro presenza effettiva, prevede che il picco di adozioni dovrebbe manifestarsi entro il 2013, anno in cui la pellicola, secondo studi di mercato americani, verrebbe infine sorpassata.[28]

Il fatto che tra i nuovi acquirenti delle nuove tecnologie vi siano molte multisale, e non più solo isolate sale all’avanguardia, costituisce un ulteriore incentivo all'accelerazione della fase di transizione.

 

Al momento della stesura del presente elaborato, in Italia risultano esservi 18 cinema dotati di almeno un proiettore digitale con tecnologia DLP.[29] Le prime sale sono state quelle del cinema multisala Arcadia di Melzo, Milano.[30]

 

Il Digital Cinema Initiatives, consorzio con la finalità di definire gli standard per i sistemi di digital cinema, nel luglio 2005 ha rilasciato la prima versione di un documento generale che illustra le metodologie e i procedimenti per masterizzare correttamente un film digitale. Le operazioni volgono verso la creazione del DCP, Digital Cinema Package, il pacchetto che contiene tutti i file necessari alla proiezione digitale.

Le specifiche tecniche DCI stabiliscono anche altri dati, tra cui gli standard di codifica della traccia video e delle diverse tracce sonore, oltre che gli algoritmi per la crittografia dei dati e per la loro marcatura, al fine di scoraggiare la pirateria.[31]

 

Una volta creato il DCP, il processo di trasmissione del film digitale ai server della sala cinematografica può quindi avvenire tramite supporti molto diversi.

Possono essere usati dei medium fisici, quali nastri magnetici digitali, dischi rigidi, o dischi ottici. Questa pratica condivide però gli stessi limiti della consegna del 35mm.[32]

Una nuova possibilità consiste nella trasmissione via internet, o tramite una connessione in fibra ottica dedicata, che può raggiungere la velocità di trasferimento di 2.5 Gigabyte al secondo. In questo caso, così come nella consegna del supporto fisico, i costi per il distributore sono direttamente proporzionali al numero di sale da servire.

La soluzione ideale, infine, sembrerebbe la trasmissione satellitare. Il segnale potrebbe così essere inviato ad un bacino d'utenza molto ampio, ad un costo indipendente dal numero di parabole in ricezione. Conseguentemente, con l'aumentare delle sale diminuirebbe il costo pro capite per sala.

In passato era frequente che durante la trasmissione via satellite agenti atmosferici o altri fattori disturbassero la comunicazione, così che la copia master non risultasse più identica a quella effettivamente ricevuta. La struttura unidirezionale della trasmissione satellitare non permette la conferma della corretta ricezione dei dati, così che per ovviare all'inconveniente è comunque necessario un collegamento supplementare, solitamente DSL, destinato unicamente alla verifica dei file.

 

I vantaggi apportati dalla migrazione verso un sistema distributivo basato esclusivamente sulle copie digitali sarebbero rilevanti. Alcuni prettamente logistici, come l'emancipazione da magazzini e corrieri, altri anche di natura tecnica. Un esempio è la possiblità del D-cinema di riprodurre il film ad un framerate variabile, e non più fissato ai 24 fotogrammi al secondo propri del cinema in pellicola. In un film si potrebbe così decidere di avere un framerate altissimo solo in quelle scene così ricche d'azione da poter essere esaltate grazie a una tale scelta estetica.

 

Il Digital Cinema Package presenta inoltre grandi vantaggi per gli esercenti:

«Con il satellite, si possono spedire differenti colonne sonore: il cinema di un quartiere latino può mandare alle sei Salvate il soldato Ryan in inglese, alle otto in spagnolo.»[33]

 

Nel maggio 2002 viene fatto uscire nelle sale Guerre Stellari: Episodio II - L'attacco dei cloni (Star Wars: Episode II - Attack of the Clones, George Lucas). Lucas ha voluto che il film fosse proiettato in anteprima in 80 sale attrezzate con proiettori digitali, sottolineando con tale gesto come la visione in digitale del film aderisse maggiormente alla sua idea originale.[34]

 

Secondo Amaducci il progetto di Lucas, nel trasmettere il film ad alcune sale digitali via satellite, applicherebbe al cinema un'idea televisiva.[35] A dire il vero, le tecnologie attuali non possono ancora gestire la riproduzione in alta definizione di un film "in diretta". Si passa sempre dalla memorizzazione sul server della sala, tramite cui le proiezioni sono poi gestite nel rispetto degli accordi di distribuzione[36].

 

È però possibile utilizzare l'intera infrastruttura per altri scopi oltre che per la proiezione di prodotti cinematografici, come eventi dal vivo, sportivi o musicali. Questo valore aggiunto, sinora utilizzato solo in rare occasioni, potrebbe costituire un ulteriore incentivo all'adozione delle nuove tecnologie.

In Italia i motivi per cui il Digital Cinema non è ancora emerso con rilievo sono da ricercare nello scarso numero di titoli disponibili - meno di dieci in quattro anni[37] - e negli alti costi di installazione e di manutenzione dei proiettori digitali.

È quindi in corso una disputa su chi, tra le case di distribuzione o gli esercenti, debba sostenere la spesa di un aggiornamento tecnologico tanto oneroso. È necessario riconoscere che i vantaggi della transizione verso il Digital Cinema si manifesterebbero tutti a favore delle compagnie di distribuzione, per i motivi che abbiamo visto in precedenza, in primo luogo per l'abbattimento dei costi pro capite per ogni sala inclusa nel piano di distribuzione. Inoltre, nei cinque anni successivi alla prima proiezione di Episodio II di Lucas, solo 112 film sono stati distribuiti nella versione per la proiezione digitale. Sebbene solamente il 55% di questi titoli sia stato poi effettivamente proiettato negli Stati Uniti, un numero assai minore risulta aver raggiunto le sale del resto del mondo, per cui solo 12 film, ad esempio, hanno goduto della distribuzione nelle sale digitali giapponesi.[38]

 

Le sale cinematografiche possono comunque pensare di aumentare il proprio valore agli occhi dello spettatore fornendo alcuni servizi accessori in grado di agevolare e rendere più piacevole recarsi al cinema. Ad esempio, le sale possono adottare misure tecnologiche per facilitare l'acquisto del biglietto, prenotabile via internet, oppure adibire all'interno dei propri spazi punti di ristorazione o destinati alla vendita di merchandising o prodotti editoriali collegati ai film in programmazione.[39]

2.2 Cinema ovunque

Nel 1976 l'azienda giapponese JVC ha inventato il VHS (Video Home System), un sistema per la registrazione e la riproduzione di filmati destinato a rivoluzionare i rapporti tra cinema e pubblico.

Il VHS fu contestato per la possibilità tecnica di registrare un film dalla televisione, costituendo inoltre la base per lo sviluppo di un mercato clandestino di videocassette pirata. Il timore era che, se la visione del film fosse stata sottratta al controllo diretto del distributore, il VHS potesse in qualche modo uccidere cinema e televisione.

 

Ma questo nuovo regime, se da una parte ha introdotto l'ambiente domestico tra i luoghi di fruizione del prodotto cinematografico, sottraendone l'esclusiva alle sale, ha d'altronde conferito nuovi poteri allo spettatore.

 

Se il «dove» poteva essere comodamente casa propria, lo spettatore con il VHS sceglieva anche «quando» vedere il film o rivederlo.

Il mercato e il noleggio delle videocassette, con il vasto catalogo disponibile, resero inoltre il pubblico indipendente nella scelta del film. Il videoregistratore permetteva di interrompere il film, rivederne solo una parte, soffermarsi su un fotogramma. Questo senso di controllo significava possedere fisicamente il film, dando adito a fenomeni come il collezionismo di film in videocassetta e la vendita in edicole e supermercati.

 

Tecnicamente, il VHS è un nastro magnetico su cui è registrato un segnale composito analogico. La sua qualità è estremamente inferiore alla pellicola, se si considera che in un sistema digitale di misurazione della risoluzione il segnale VHS restituisce circa 250 linee, mentre un negativo in pellicola 35mm ne risolve fino a 6.000.[40]

I progressi tecnologici verso un sistema video interamente digitale hanno fatto individuare nel DVD-Video il naturale successore del VHS.

Per riprodurre i film in DVD è necessario disporre di un lettore apposito, ragione per cui l'adozione del nuovo formato è stata completata in diverse fasi. Dopo aver condiviso dal 1996 il mercato con il VHS, nel 2003 il DVD negli Stati Uniti è stato venduto più delle videocassette.[41]

In Italia, il 2006 ha registrato una forte contrazione delle vendite di VHS, scese a 22 milioni di euro, in calo del 62% rispetto al 2005.[42]

Sempre nel 2006, la maggior parte delle compagnie americane ha interrotto la distribuzione dei propri film in VHS, optando per il lancio del solo DVD.

A differenza del nastro analogico, il DVD è reso più ricco dalla possibilità di contenere dati multimediali, come interviste ad autori e attori, backstage, ipertesti, gallerie fotografiche e qualsiasi forma di contributo audiovisivo. È possibile addirittura confezionare un videogioco interattivo, da controllare usando il telecomando, come nel caso del gioco Wallace & Gromit: La maledizione del Coniglio Mannaro (Wallace & Gromit in The Curse of the Were-Rabbit, Universal Pictures, 2005).

Il corredo editoriale di un DVD costituisce quindi un forte incentivo all'acquisto, ampliando la comunicazione tra produzione e destinatario in una maniera non espletabile dal solo film. Il DVD ospita i materiali che ruotano attorno al film e che ne mostrano i retroscena, portando ad un contatto più intimo con lo spettatore.

 

Da tempo ormai i collezionisti di film non acquistano più videocassette ma DVD; tuttavia questo non è il formato di archiviazione definitivo, neanche per l'utente finale.

Il DVD contiene solitamente flussi audiovisivi codificati in MPEG-2, un algoritmo di compressione che opera attraverso una riduzione dei dati delle immagini e del suono, in maniera da rendere tali perdite poco percettibili ai sensi dell'essere umano. In linea teorica, la massima qualità si ha invece con una copia identica a quella edita in postproduzione. Per un film girato e montato in pellicola, questo significa che è ancora la pellicola il formato più fedele all'originale, capace di preservarne il maggior numero di dettagli.

Nel caso di un master digitale, la massima qualità è una copia identica o in una versione codificata in un formato lossless, senza perdita. L'MPEG-2 è invece lossy, quindi comporta una perdita di informazioni.

Allo stato attuale, non vi è dunque coincidenza tra i formati industriali e quelli per la distribuzione.

 

Nel 2002 Sony ha presentato un nuovo supporto ottico, il Blu-Ray disc.

Questo formato, delle stesse dimensioni di un DVD, ne ambisce ad essere il più probabile sostituto. Ad un progetto equivalente ha lavorato Toshiba, la stessa azienda che aveva gettato i presupposti tecnici per la nascita del DVD, e che ne aveva poi proposto un’evoluzione, il sistema HD-DVD. Le due specifiche, non compatibili tra loro, si sono contese in maniera agguerrita il mercato globale dell'home video, coinvolgendo tutte le grandi aziende IT nel supportare uno dei due standard. Anche le major di Hollywood hanno preso posizione: dalla parte del Blu-Ray 20th Century Fox, Buena Vista, New Line e ovviamente Sony Pictures; per HD-DVD Paramount e Universal. Warner Bros. ha inizialmente supportato entrambi i formati, per poi concentrarsi solo su Blu-Ray; tale dichiarazione, del gennaio 2008, ha portato le vendite settimanali di lettori Blu-Ray al 93% lasciando al HD-DVD il restante 7% del totale.[43]

Dopo circa un mese, e dopo la decisione di numerosi produttori e distributori di non trattare più l’HD-DVD, tra cui National Geographics, il negozio on-line Netflix e la grande catena di supermercati statunitense Wal-Mart, Toshiba ha annunciato l’interruzione di un business rivelatosi fallimentare. I dispositivi per la riproduzione venduti fino a quel momento corrispondevano a circa un decimo del numero di player Blu-Ray in circolazione, superando di poco il milione di unità. Di questi, 600.000 sono stati venduti negli Stati Uniti e 100.000 in Europa.[44]

La «guerra dei formati», protrattasi a lungo, e che ha comportato forti perdite economiche per Toshiba, Microsoft, Paramount, Universal, Dreamworks, oltre che per molte altre aziende connesse alla distribuzione di contenuti in alta definizione su HD-DVD, ha in realtà danneggiato l'intero business dei supporti fisici per la distribuzione. Il rischio per Sony è che il Blu-Ray non erediti la totalità del mercato attualmente occupato dal DVD, per via dei nuovi progetti affermatisi nel frattempo per la vendita e il trasferimento in rete di contenuti cinematografici.

Sono però le consolle per videogame il cavallo di troia che permette l'inoculazione delle nuove tecnologie nel territorio domestico, dove forse non si avverte ancora così forte un'esigenza di abbandonare il DVD per un formato dalla migliore resa visiva. La PlayStation 3 Sony integra infatti un player Blu-Ray, mentre la Xbox 360 Microsoft supportava la riproduzione di HD-DVD.

Un’altra forza in gioco era costituita dai produttori di film per adulti, che avevano inizialmente indicato l’HD-DVD come formato migliore. Il loro mercato, però, ha nel frattempo richiesto un'inversione di rotta.[45]

In passato, l'adozione del VHS a discapito del formato rivale Betamax di Sony ha dimostrato che il successo di uno standard è decretato da molteplici fattori, non ultimi gli interessi delle grandi multinazionali coinvolte nella fruizione del prodotto.

 

Esistono altri supporti di archiviazione destinati a registrare immagini in movimento, come UDO (Ultra Density Optical) e DMD (Digital Multilayer Disk), indirizzati al mercato degli studi di produzione, per le loro elevate performance.

Sony ha sviluppato il formato UMD (Universal Media Disc), che a dispetto del nome è riproducibile solo sulla consolle portatile PlayStation Portable, e che per qualche tempo ha goduto della distribuzione di alcuni titoli cinematografici, perlopiù da parte di Virgin. Tuttavia, le vendite di film in UMD sono state reputate insufficienti affinchè se ne perpetuasse la distribuzione.[46]

 

La diffusione di reti internet a banda larga, e una progressiva diffusione della cultura informatica presso il pubblico generico, ha intanto elevato il personal computer a dispositivo privilegiato per la fruizione e l'archiviazione di contenuti multimediali. Il cinema vi è entrato sotto forma di DivX, un formato capace di ridurre un DVD in un file compresso, inizialmente collegato alla distribuzione illegale. Il DivX e i codec successivi portano una novità importante anche sul piano teorico: il film, magari girato in pellicola e distribuito su DVD, viene ora privato di un supporto fisico, ed esiste soltanto nella forma più immateriale possibile. Il film è solo un file, una sequenza di bit, riversabile a piacere su un nuovo DVD, su hard disk o su scheda di memoria, e riproducibile su player da tavolo, su computer, o anche su un'autoradio munita di player video. Il film «esiste» solo quando viene riprodotto o duplicato.

Se il contenuto di un supporto non è più legato ad esso, assumendo la forma del flusso di dati, esso può allora essere trasferito via rete, o consegnato a domicilio via internet, senza passare necessariamente dalla consegna fisica.

Sono disponibili servizi on-line che permettono l'acquisto e il download di film, serie tv e musica, come ad esempio "Netflix.com", "Cinemanow.com" o "iTunes Store". Quest'ultimo, nel gennaio 2008, ha lanciato il servizio "iTunes Movie Rentals", che permette agli utenti di scaricare film e riprodurli entro un lasso di tempo stabilito.[47]

A tale servizio ne è stato affiancato un altro, che permette all'acquirente di un film in DVD di ottenere una "iTunes Digital Copy", cioè la copia su file del film, riproducibile anche su alcuni player video abilitati.[48]

Il fatto che la copia digitale sia gratuita per chi ha comprato il DVD ha grande valore: viene infatti concessa allo spettatore la facoltà di fruire del film indipendentemente dal supporto o dal player che egli preferisce, senza mettere in competizione il file binario con la copia fisica.[49]

 

Sul mercato esistono anche DVD prodotti con speciali materiali che reagiscono con l'aria una volta aperti, rendendo possibile la visione solo entro un certo intervallo di tempo.

Michael Campbell, direttore del Regal Entertainment Group, la maggiore catena di sale di proiezione degli Stati Uniti, risponde così alla domanda sulla presunta minaccia che i nuovi formati costituiscono per le sale:

Credo che i DVD siano stati una salvezza non solo per il modello degli studios, ma che abbiano portato dei benefici anche ai gestori di sale, perché fanno guadagnare di più agli studios, che a loro volta alimentano bundet più alti per le produzioni, un maggior numero di film, e così via.[50]

I gestori di sale americani hanno però costituito un fronte compatto nel tentativo di bloccare un progetto di distribuzione alternativa che ritenevano avrebbe potuto danneggiarli. Bubble (Steven Soderbergh, 2005) è il film con cui 2929 Entertainment e Magnolia Pictures hanno tentato di introdurre un nuovo modello distributivo, lanciandolo simultaneamente nei cinema, sulla TV via cavo e su DVD. Con grande soddisfazione degli esercenti, il film ha ottenuto scarso successo al botteghino, forse anche a causa del boicottaggio da parte di molte catene di sale.[51]

Nonostante ciò, i promotori del progetto si sono dichiarati favorevoli a riproporre tale modello distributivo alternativo.[52]

 

Steven Soderbergh, che ricorda come la pirateria permetta già il lancio simultaneo su più piattaforme, fuori dal controllo degli studios[53], commenta così l'esperimento:

Per quanto concerne queste nuove possibilità distributive, io credo sia necessario esplorare ogni tipo di strada senza preclusioni e questo è il momento giusto per fare qualcosa di nuovo che possa arrivare ad un pubblico più vasto. La distribuzione contemporanea su più media è un'ottima possibilità che ci viene fornita dalle enormi possibilità della tecnologia moderna e come ogni possibile innovazione va cavalcata, senza averne paura. È un'epoca controversa per il cinema e non possiamo sapere se questa sarà la strada giusta o se il terrore del nuovo blocchi tutto, ma bisogna provare per stabilirlo.[54]

In Italia, una vicenda simile è legata alla distribuzione di Memorie di una geisha (Memoirs of a Geisha, Rob Marshall, 2005), The Interpreter (Sidney Pollack, 2005), e altri titoli distribuiti da Eagle Pictures. La compagnia aveva concesso i diritti sui suoi film all'operatore telefonico TRE perché li rendesse fruibili sul proprio network attraverso cellulari UMTS.[55] I film sarebbero stati visionabili per una settimana dall'acquisto, al costo di 9 euro.

Il gestore telefonico disponeva già di un catalogo di film di seconda visione, fruibili via streaming, come accade per altri operatori telefonici in Europa.

Solo in italia si è tentato il lancio su rete mobile di film ancora programmati in sala. Alla notizia dell'offerta di TRE, molti gestori di sale hanno minacciato di non proiettare i film distribuiti da Eagle.

 

Per sua natura il dispositivo mobile, che permette la visione di audiovisivi quando si è lontani dall'impianto home video di casa, favorisce in realtà i formati più brevi e i cortometraggi. Può inoltre essere impiegato come strumento di supporto alla promozione, diffondendo trailer e anticipazioni sui film in programmazione.

 

Robert Redford, in collaborazione con GSM Association, associazione statunitense di operatori di telefonia mobile, ha recentemente promosso la creazione di un sistema per rendere disponibili brevi film su cellulare.[56] L'operazione, nata da un accordo con il Sundance Film Festival, mira a promuovere opere di autori indipendenti, e non a distribuire film mainstream.

Si può immaginare che tale progetto sorga dalla necessità degli operatori mobili, che forniscono tecnologia ma hanno bisogno di contenuti e di disporre di un circuito di opere che si alimenti autonomamente, cui regalare visibilità in cambio della presenza sul proprio network.

 

La visione di un film su microschermo in termini oggettivi risulta estremamente limitata se comparata all'esperienza visiva e auditiva dei sistemi home video di ultima generazione.

I contenuti che meglio sembrano adattarsi ai display dei dispositivi mobili sono quelli realizzati appositamente, tenendo conto della difficoltà per lo spettatore di distinguere gli elementi più piccoli del quadro.

 

David Lynch, che tramite il proprio sito web "davidlynch.com" si era reso pioniere di innovative formule distributive di brevi prodotti audiovisivi, ha recentemente scagliato un'invettiva contro la distribuzione dei film su dispositivi mobili:

Se guardate il film su un telefono, non riuscirete nemmeno in mille miliardi di anni a provare l'esperienza del film. Credete di averla provata ma sarete stati fregati. È così triste pensare di poter vedere un film su un fottuto telefonino. Tornate alla realtà![57]

2.3 Marketing alternativo per il cinema

La promozione costituisce un aspetto di estrema rilevanza per il successo commerciale di un film. Una campagna di marketing appropriata può produrre risultati eccellenti al box office, indipendentemente dal valore artistico del film promosso.

Tra i mezzi tradizionali di promozione, il trailer è il testimone sintetico delle qualità di un film, rappresentandone alcune caratteristiche e rivolgendosi ad un preciso target di pubblico.

Oggi il trailer costituisce solo uno dei tanti strumenti impiegati dal complesso sistema di promozione di un prodotto cinematografico.

 

È necessario affiancare ai canali tradizionali una tenace presenza su internet, sia attraverso finestre ufficiali, sia stimolando l'interesse dei navigatori, che saranno così portati a diffondere ulteriormente le informazioni sul film. Inoltre, la promozione di un film sul web permette di rivolgersi a target altrimenti difficilmente raggiungibili, quali ad esempio il pubblico giovanile.

Ogni nuovo titolo dovrebbe essere sostenuto da una pagina web ufficiale che riporti informazioni utili per giornalisti e recensori, ma che presenti anche una certa quantità di bonus, che in modo simile ai contenuti extra dei DVD, sia capace di soddisfare i bisogni dello spettatore.

In alcuni casi il sito web abbinato al film è realizzato sotto forma di gioco interattivo che estende alcuni aspetti del racconto e permette allo spettatore di partecipare, seppur virtualmente, alle vicende narrate nel film.

Il sito ufficiale del film La bussola d'oro (The Golden Compass, Chris Weitz, 2007)[58] permette ai visitatori di interagire con una riproduzione virtuale della bussola magica del film, guidati da una voce che ne descrive il funzionamento.

 

Una tendenza comune a molti internauti è seguire giornalmente blog tematici.

Si dichiarano cineblogger alcuni critici e docenti, ma soprattutto semplici appassionati, che periodicamente scrivono di cinema sul proprio blog.

Alcuni di loro, attirando verso i propri post[59] un grande volume di traffico, assumono i ruoli di opinion leader e taste-maker, così da influenzare le scelte del pubblico che li segue.

Questi stessi siti costituiscono spazi di confronto in cui i visitatori possono scambiarsi opinioni, o vengono informati delle prossime uscite.

L'insieme dei blog costituisce un potente medium, che può essere considerato come l'evoluzione telematica del passaparola. È quindi difficilmente controllabile, ma capace di apportare pubblicità gratuita ad un film da promuovere e di veicolare informazioni fino a destinatari irraggiungibili con altre forme di promozione.

 

Una copia di valutazione del film The Man from Earth (Jerome Bixby, 2007), una produzione indipendente probabilmente destinata a non ricevere particolari attenzioni da parte dei media, è stata duplicata e immessa nel circuito illegale del filesharing[60].

Le persone che hanno scaricato il film e lo hanno apprezzato ne hanno poi scritto recensioni positive su “Amazon.com”[61], “Internet Movie Database”[62], e altri spazi pubblici di discussione. Eric Wilkinson, produttore del film, ha ringraziato pubblicamente i pirati per avere messo in condivisione una copia di The Man from Earth, spiegando che molti degli spettatori che avevano scaricato illegalmente il film hanno attivamente contribuito a promuoverlo.[63]

 

Il marketing delle opere cinematografiche, in casi particolari condotti in maniera creativa, ha rivelato di poter assumere forme insolite ed estremamente efficaci.

The Blair Witch Project: Il mistero della strega di Blair (The Blair Witch Project, Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, 1999) è un celebre esempio di campagna mediatica originale e di successo, in questo caso attuata confondendo volutamente realtà e finzione. Il sito di supporto al film aveva diffuso la notizia, apparentemente vera, della scomparsa di tre giovani filmmaker. Il film viene presentato come il materiale video girato nel corso dell'indagine che i tre stavano svolgendo, prima di perire a causa di misteriose forze malvagie. Il taglio documentaristico e vari accorgimenti per aumentare la verosimiglianza dell'operazione, come l'impiego nella narrazione dei nomi reali degli attori, hanno contribuito ad alimentare un forte senso di disorientamento nel pubblico che veniva a conoscenza della vicenda, e che provava quindi il forte desiderio di recarsi al cinema per accertarsi della sorte dei tre giovani.

 

Una campagna pubblicitaria analoga ha avuto luogo a Roma per il lancio in Italia del film Danny the Dog (Unleashed, Louis Leterrier, 2005). Un'azione di volantinaggio richiamava l'attenzione dei passanti, chiedendo aiuto per la liberazione di un ragazzo reso schiavo e costretto, come un cane, a lotte clandestine. Il volantino invitava a recarsi su un sito web, da cui il visitatore avrebbe poi appreso dell'esistenza di un documentario sulla vita di Danny. Solo la visione del trailer o di un poster pubblicitario avrebbe poi fatto comprendere allo spettatore che si trattava in realtà di un'operazione promozionale.[64]

 

Per promuovere I Simpson: Il film (The Simpsons Movie, David Silverman, 2007), le insegne di molti supermercati della catena statunitense “7-Elevens” sono state sostituite con il logotipo del supermercato di finzione della cittadina in cui è ambientato il cartoon. All'interno di questi esercizi commerciali sono state messe in vendita confezioni di prodotti a riproduzione degli alimenti e delle bevande che appaiono nel film e nella serie televisiva.[65]

 

Anche nel caso di produzioni indipendenti in cerca di distribuzione, l'impiego di modelli promozionali innovativi può fare emergere il film e permettere la relazione di soggetti minori con un sistema distributivo che altrimenti incuterebbe timore.

In Italia un recente esperimento di marketing alternativo, intrecciato ad una formula produttiva fortemente innovativa, si potrebbe individuare in Voglio la luna (Roberto Palmieri e Roberto Conte, 2008), alla cui proiezione gli spettatori potranno assistere gratuitamente. Il film è stato finanziato con un ricorso massivo alla pubblicità indiretta, e la sua trama è sviluppata proprio attorno ad un prodotto, che il film promuove dichiaratamente. [66]

Il product placement, definito dal decreto Urbani del luglio 2004 come «collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un'opera cinematografica»[67] è una formula che sta affermandosi come fonte di finanziamento per il cinema italiano alternativa al meccanismo del finanziamento pubblico.

Ma l'invadenza degli sponsor in film come Notte prima degli esami - Oggi (Fausto Brizzi, 2007), Una moglie bellissima (Leonardo Pieraccioni, 2007) o Grasso, grosso e Verdone (Carlo Verdone, 2008) sembrerebbe addirittura motivarne la realizzazione. Esiste quindi il rischio concreto di una «completa subordinazione di ogni contenuto della comunicazione - anche di quella artistica - allo strapotere del messaggio pubblicitario»[68] e dell'estensione fin dentro al cinema dello «spazio di vita in cui ciascuno di noi è obbligato ad essere spettatore di spot»[69].

2.4 Operazioni sulla pellicola digitale

Il termine «post-produzione» tipicamente indica l'insieme di quelle operazioni nella lavorazione di un film che seguono la ripresa e permettono il confezionamento dell'opera come prodotto finito.

Il cinema digitale, con il suo nuovo apparato tecnologico, espande la gamma di operazioni che è possibile e necessario eseguire in sede di post-produzione, tanto che il tempo da destinarvi diviene sensibilmente superiore rispetto a quello impiegato per le riprese.

L'acquisizione della pellicola, procedimento effettuato solitamente tramite telecine virtuale, dà origine al Source Master (SM).

 

Honolulu Baby (Maurizio Nichetti, 2001) è stato il primo film in Europa il cui processo di post-produzione è stato realizzato interamente in digitale.

Il riversaggio della pellicola su supporto digitale, e quindi l'elaborazione digitale delle immagini alla risoluzione di 2K, costituiscono un pioneristico procedimento tecnico, che era stato utilizzato in precedenza solo per un altro film al mondo. Per Fratello, dove sei? (O Brother, Where Art Thou?, Joel e Ethan Coen, 2000) si era fatto uso per la prima volta di un intermediario digitale che contenesse il film nella sua interezza. Inizialmente la pellicola è stata scansionata a 2K con il telecine digitale Datacine Spirit, mentre la correzione colore è stata eseguita mediante il sistema MegaDef Pandora; il film corretto in digitale è stato poi riportato su pellicola con il registratore Lightning II Kodak.[70]

 

Massimo Germoglio, montatore di Honolulu Baby, ricorda come l'intervento digitale servisse ad «assoggettare la tecnologia al film, alla sua storia, alla narrazione che il film stesso richiedeva»[71]:

Tutto il montaggio è stato passato in digitale, super35 e poi in Cinemascope. Questo processo apre un ventaglio di possibilità creative immenso. Ci sono 20 minuti di effetti speciali, fatto inusuale in Italia, che spero siano 'invisibili' visto anche che non stiamo parlando di un film di fantascienza. Anche il graphic design per i titoli di testa e di coda ha richiesto una cura formale non indifferente, ma certo non fine a sé stessa, sempre subordinata al film.[72]

Nel film si nota come sia stata rivolta una cura particolare nel caratterizzare i luoghi della storia con un lavoro speciale sul colore: la Milano da cui l'impiegato fugge è resa ancora più grigia; i territori sudamericani dove egli trova la serenità sono invece saturi di colori caldi.

 

Un film che ha adottato lo stesso procedimento di digitalizzazione del girato in pellicola, con un occhio di riguardo all'ottimizzazione delle risorse al fine di ridurre i costi totali di produzione, è Jason X (James Isaac, 2001), splatter dall'umorismo autoreferenziale e dallo scarso successo commerciale.

 

Dennis Berardi, supervisore degli effetti visivi del film, ripercorre così alcune fasi del suo lavoro:

Solitamente, ciò che accade nei lungometraggi è che il film sia girato su pellicola 35mm, e che vengano poi digitalizzate solo quelle scene su cui si deve operare. Potremmo digitalizzare forse quindici inquadrature, forse cento. Per questo film digitalizziamo l'intero film: ogni singolo fotogramma ripreso esiste in versione digitale, che conserviamo nell'archivio digitale globale del film. Otteniamo così l'opportunità eccezionale di operare sul film come non era mai stato possibile. Ogni fotogramma può essere modificato, corretto nei colori, ritoccato con immagini generate al computer, disposto a strati e composto con altre immagini. Abbiamo disegnato il look dell'intero film fotogramma per fotogramma. Generalmente i film vengono girati con quattro perforazioni [...]. Questo film è girato con tre perforazioni sul 35mm, così da risparmiare del 25% la quantità di pellicola impressionata, per riversare il film in alta qualità alla risoluzione di 1920 per 1080 pixel.[73]

Dopo la creazione di un intermediario digitale in alta qualità, il DM (Distribution Master), destinato alla proiezione digitale e dei formati per i diversi canali distributivi, come TV, HDTV, DVD, e 35mm per la proiezione analogica, la post-produzione si chiude con l'archiviazione.

Gli impianti di post-produzione devono attrezzarsi con dispositivi capaci di gestire immagini digitali della più alta qualità possibile, trasferibili velocemente da un apparato all'altro, organizzate in un archivio sicuro e immediatamente consultabile.

L'archivio digitale è il sistema in cui i file delle immagini e i metadati associati vengono conservati.

Il singolo master universale non può essere in pellicola ma deve necessariamente essere digitale, perché se così non fosse, si avrebbe perdita di definizione ad ogni successiva acquisizione.

Per il cinema digitale la codifica Motion JPEG 2000 sembra essere la più idonea, perché tale codec è predisposto per la trasmissione via rete, scalabile, e permette la coesistenza di contenuti compressi senza perdite, senza perdite visibili, e con perdite.[74]

Inoltre, è fondamentale che per lo spettatore il film digitale abbia una resa visiva percepita come pari o superiore a quella della pellicola. Senza tale elemento verrebbero a mancare i presupposti per la transizione dal sistema analogico a quello interamente digitale.

È comunque vero che sono sempre necessari riversaggi periodici per preservare il supporto dagli effetti del tempo, sia nel caso del film in pellicola, sia che si usino nastri digitali o dischi digitali.

Il film non è più identificato con il suo supporto, può essere trasferito su supporti di archiviazione di nuova generazione in maniera lossless, cioè senza che alcun dato venga alterato o perduto.

Un archivio digitale è consultabile tramite ricerche mirate, dato che i metadati associati alle immagini permettono una catalogazione estesa.

I problemi dell'archiviazione di file multimediali sono legati soprattutto alla questione della compatibilità "in avanti", vale a dire alla possibilità o meno, in futuro, di disporre di strumenti capaci di leggere correttamente i dati archiviati.

Operare su immagini in alta definizione, apportando modifiche ai file originali, richiede infatti un sistema che conservi traccia di tali cambiamenti.

 

Negli studi di post-produzione, tra gli strumenti del montatore ormai non figurano più le forbici, sostituite dal più funzionale mouse.

"Avid", "Apple Final Cut Pro", "Adobe Premiere" sono le soluzioni informatiche più diffuse per il montaggio video professionale e semi-professionale. Tali software vengono definiti NLE, sistemi di editing non lineare, per via della loro possibilità di accedere, senza dover scorrere il filmato, ad un suo punto specifico.

Sergej Ejzenštejn, nella sua Teoria generale del montaggio, concepisce una ripartizione strutturale del processo creativo del montaggio. In essa, si può distinguere un montaggio orizzontale, che agisce sul susseguirsi delle immagini nel tempo, e uno verticale, che regola la sovrapposizione di più piste audio all'immagine. Sebbene Ejzenštejn mirasse al contrappunto audiovisivo, è sorprendente notare la grande somiglianza tra il modello ejzensteiniano e l'interfaccia grafica di un qualunque software NLE, in cui su una timeline orizzontale si susseguono gli stacchi, e ogni traccia audio è identificata da una timeline sovrapposta in verticale alle altre.

In opposizione al montaggio orizzontale, che attua la comune successione e concatenazione di inquadrature sonorizzate, il montaggio verticale implica la differenziazione di più «battute audiovisive», come spiega Ejzenštejn:

Certamente tutti hanno visto una partitura orchestrale. Vi sono diversi pentagrammi, in ognuno dei quali è scritta la parte di un particolare strumento o di un gruppo di strumenti affini. Ogni parte è sviluppata graficamente in senso orizzontale. Ma non meno importante è la struttura nel senso verticale che collega tutti gli elementi dell’orchestra, ciascuno entro una data unità di tempo. Accompagnando la progressione della linea verticale verticale che avanza sulla partitura orchestrale, si svolge, sviluppato orizzontalmente, il complesso e armonico movimento musicale dell’intera orchestra. Allorché dall’immagine della partitura musicale passiamo a considerare la partitura audi-visiva, vediamo che alle parti strumentali deve essere aggiunta una nuova parte: e cioè, un «pentagramma» di elementi visivi in successione, e corrispondenti, secondo le proprie leggi, al movimento della musica e viceversa.[75]

Il «pentagramma» cui Ejzenštejn si riferisce è quindi sia la battuta della partitura musicale, sia la particella audiovisiva oggi rappresentata dal clip dei software di video editing.

Il sincretismo semiotico che ha luogo con il montaggio verticale porta inoltre alla fusione dei diversi piani dell'audiovisivo, sostenendo una funzione collante che fa percepire le immagini in successione come contigue.

III – Lo spettatore attivo

Il cinema presuppone sempre un destinatario.

È una forma d'arte dalla comunicazione multisensoriale, e richiama a sè lo spettatore che ne è intrattenuto, ma anche affascinato.

In questo capitolo osserveremo come la sala cinematografica non costituisca più il luogo principe in cui fruire di un film, a vantaggio di tecnologie digitali di uso individuale. Dirigeremo poi la nostra ricerca verso le forme della pirateria audiovisiva industriale e della pirateria on-line di massa, cercando di ricostruire i movimenti operati dall’industria per fronteggiare tali questioni. Presenteremo inoltre alcuni casi in cui lo spettatore riveste il ruolo di produttore di contenuti. Il capitolo si concluderà con un’analisi dell’influenza reciproca tra l'interattività dei videogame e la narrazione tipica dei prodotti cinematografici.

3.1 Lo spettatore senzatetto

Meravigliare è una delle peculiarità del cinema.

Un certo cinema contemporaneo tende però a suscitare forti eccitamenti di sorpresa, e lo fa mostrando personaggi che compiono azioni spettacolari, o che si muovono in ambienti straordinari, e magari suggerendo le giuste emozioni tramite un commento musicale mirato, rendendo infine lo spettatore «immerso più che immedesimato»[76].

Il buio e il silenzio sono alcuni dei fattori che hanno mantenuto la sala cinematografica come l’unico luogo in cui la magia del cinema poteva manifestarsi appieno. Quando lo spettatore è in sala, al buio e in silenzio, sovrastato da uno schermo enorme, viene da questo catturato, astraendosi così dalla propria poltrona.

 

Un dato evidente degli ultimi anni è il passaggio da un tipo di fruizione collettiva del film, presso la sala di proiezione o le sue altre declinazioni (cineforum, arene estive…) a una fruizione più solitaria, dapprima domestica e familiare, legata ai sistemi home video, poi del tutto dislocata e individuale, come nel caso dei film riprodotti su PlayStation Portable e iPod.

 

Un player tascabile dalla capienza di svariati gigabyte di memoria può oggi assumere la funzione di jukebox video e contenere decine di film.

La visione di un film su dispositivo mobile è spesso accompagnata da un'altra attività di qualche tipo, così che il film assume il carattere di opera di «entertainment» in senso stretto. La sua funzione si riduce così all'«intrattenere» un pendolare durante i suoi spostamenti in treno, o uno sportivo mentre si allena sulla cyclette.

Non si sta più con la testa all'insù, come quando si è seduti al cinema sotto il grande schermo, ma si guarda in giù, verso il player che si tiene in mano o verso lo schermo del computer sulla propria scrivania. Viene allora a cadere l'effetto suggestivo del “Sublime”, dell'opera che per la sua grandezza terrorizza piacevolmente l'animo dell'uomo.

 

Già sul finire del Diciannovesimo secolo, in realtà, si distinguevano due sistemi principali di visione di immagini in movimento, ed erano per l'appunto la visione collettiva, quella delle proiezioni su schermo, e la visione individuale, da consumare attraverso il foro dei peepshow.

 

Recarsi al cinema, magari affrontando lo stress di guidare, pagando un prezzo più alto del noleggio privato, è un atto dettato dalla necessità di uscire di casa e confrontarsi con un contesto sociale che valichi le mura domestiche.

Negli ultimi anni si è moltiplicato il numero di multisale, grazie anche alla possibilità di accesso per i costruttori ai finanziamenti del Fondo Unico per lo Spettacolo.[77]

Tale nuova formula di accentramento cambia la concezione del «luogo cinema», in cui ci si reca senza magari sapere in anticipo a quale film si vorrà assistere, sicuri comunque di trovare film adatti alle proprie esigenze. Ogni multisala offre tipologie di prodotti diversificate, e alcune di esse trovano collocazione all’interno di grandi centri commerciali.

 

Lucilla Albano, docente di cinema presso l'Università degli Studi Roma Tre, commentava così l'aumentato consumo di cinema attraverso la progressiva diffusione dei sistemi home video, e il conseguente declino della sala come luogo principe di fruizione del film:

Gli anni settanta e ottanta rappresentano, rispetto ai decenni precedentl, un cambiamento e una rottura radicali, strutturali. li Cinema cambia e «muore» in quanto macchina e fabbrica dell'immaginario, dell'illusione e del sogno; perde progressivamente il suo posto centrale come luogo popolare di svago, divertimento ed evasione. Altre strutture e altri sistemi prenderanno il suo posto: i palinsesti onnicomprensivi delle TV generaliste e quelli mirati delle TV tematiche, i grandi eventi in diretta, soprattutto sportivi, le videocassette e i DVD, i Cd-Rom e il computer, i videogiochi e Internet. Ma il cinema «muore» soprattutto rispetto alla sua diffusione nelle sale, mentre in realtà si moltiplicano i canali attraverso cui si fruiscono i film e il consumo, soprattutto del prodotto americano, è vertiginosamente aumentato.[78]

3.2 Pirateria off-line e on-line

La duplicazione illegale dei film in VHS alimentava un florido mercato clandestino capace di rendere disponibili i maggiori titoli quando questi erano ancora in programmazione nei cinema, se non addirittura prima.

 

L'industria cinematografica nell'adottare le soluzioni digitali degli ultimi anni non ha mai permesso che il film fosse del tutto slegato da una copia fisica, quindi da un oggetto che si identificasse in esso, perché ciò ridurrebbe le possibilità di controllo sul suo utilizzo e i profitti che se ne potrebbero trarre. La copia non autorizzata è considerata dall'industria dei film una minaccia per la propria sopravvivenza.

 

In Italia la FAPAV, Federazione Anti-Pirateria Audiovisiva, svolge attività per la tutela e la promozione dell'industria audiovisiva e cinematografica, mirando a combattere la distribuzione illecita di materiale audiovisivo.

Secondo la FAPAV, la pirateria audiovisiva propriamente detta è la duplicazione non autorizzata di film destinati alla proiezione, che con la complicità di persone che lavorano nell'ambito del doppiaggio o della post-produzione vengono trasferiti su DVD per poi essere illegalmente venduti al pubblico tramite venditori ambulanti, sul mercato clandestino.

A questa tipologia di pirateria, la FAPAV accosta anche altre forme di utilizzo illecito di materiale coperto da copyright, come la trasmissione di film da parte di emittenti che non ne detengono i diritti, la proiezione pubblica di copie di film destinate invece ad un uso privato, la duplicazione di DVD da parte degli stessi titolari di videoteche al fine di ottenere ulteriori copie per il noleggio, il download via internet di copie illegali, e la ricezione abusiva del segnale di pay-TV satellitari.[79]

 

Il film Disney Ratatouille (Brad Bird e Jan Pinkava, 2007) era reperibile in strada come copia pirata ancora prima del suo arrivo nelle sale.

Finora, le nuove uscite sottratte indebitamente alla distribuzione ufficiale hanno sempre presentato una bassa risoluzione video. Filippo Roviglioni, ex presidente FAPAV, ad una recente conferenza si lamentava però di una novità: «Ratatouille si trova da subito in ottima qualità. Anche perché il giro d’affari dei pirati ha raggiunto quello dei produttori legali: 1 miliardo di euro l’anno, cifra che gli ha permesso di raffinarsi».[80]

 

Negli Stati Uniti, già due settimane prima della presentazione ufficiale di Hulk (The Hulk, Ang Lee, 2003), era disponibile on-line una copia pirata del film. Universal ha attribuito a tale episodio la colpa dello scarso successo del film al botteghino, per poi stimare il danno economico subito in cento milioni di dollari.[81]

 

In Asia la pirateria endemica soffoca il mercato degli audiovisivi, soprattutto di quelli americani. Nel 2001 sono stati scoperti 74 stabilimenti industriali per la duplicazione di film.[82] Secondo alcune stime, in Cina il 95% delle vendite di supporti per l'home video avrebbe una provenienza illegittima.[83]

 

Un sistema piuttosto diffuso, che permette a semplici spettatori di registrare un film dal cinema, magari in occasione di un'anteprima non pubblica, è la ripresa dell'immagine sullo schermo mediante una telecamera. Tramite computer, il film viene poi codificato in un formato idoneo alla sua diffusione in rete. Al nome del file viene inclusa la sigla "CAM", che avverte appunto che la qualità video non è eccellente e che la registrazione può presentare disturbi, quali ombre o risate del pubblico.

Il nome del file può indicare anche il nome del gruppo pirata responsabile della sua diffusione. I componenti di tali team, la cui identità è sempre celata da pseudonimi, competono con i gruppi rivali nel tentativo di distribuire il maggior numero di titoli, o quelli più prestigiosi. L'insieme dei gruppi pirata, o release team, compone quella che in gergo è detta la scena.[84]

 

Riprendere clandestinamente le proiezioni, sistema detto bootlegging, sebbene agisca a discapito della qualità, garantisce sicuramente una buona tempestività. Per arginare tale fenomeno, si è ricorso all'impiego in sala di ispettori dotati di visori a infrarossi, metaldetector e rilevatori di elettromagnetismo, in Italia usati in occasione della Festa del Cinema di Roma del 2006.

 

Come "CAM", un'altra sigla che identifica il processo con cui si è ottenuta la copia del film è "DVDrip", che indica una copia del film in DVD come iniziale sorgente del file pirata. Dato che negli Stati Uniti può essere lanciato in DVD un film anche prima che questo esca nelle sale di un altro Paese, è possibile trovare in rete versioni di film che uniscono l'alta qualità video del DVDrip all'audio doppiato in una lingua localizzata, registrato dalla sala.

 

I maggiori codec impiegati per la codifica e la riproduzione di film e di materiali audiovisivi di una certa durata sono il DivX e l’Xvid, un suo derivato, così diffusi che la possibilità di leggere tali formati viene tuttoggi integrata nella maggior parte dei lettori DVD da tavolo.

Tuttavia si nota la tendenza a rilasciare film tramite i codec Theora, H.264 e Windows Media Video, anche in vista della loro garanzia di buone performance nell'impiego su filmati ad alta definizione.

 

Le copie illegali dei film hollywoodiani presentano spesso una caratteristica interessante: la sigla "SCREENER", se presente nel nome del file, indica che il film è una copia di valutazione, originariamente destinata a giudici di concorsi, giornalisti o operatori del settore, ma non al pubblico, come ricordano le marcature in sovrimpressione che scoraggiano la vendita e il noleggio di tale copia.

Gli screener sono copie che, per una falla nel percorso che precede l'uscita del film, vengono spesso rese pubbliche da un insider, ovvero una persona che lavora all'interno del sistema distributivo o della post-produzione. Una copia così trafugata è detta leaked.

Un'ulteriore sigla che, più raramente, è possibile trovare ad indicazione dell'origine del film digitale è "WORKPRINT". È il caso del film Hulk, sopra citato, che nella versione illegale distribuita on-line presentava delle sequenze non ancora completate dagli effetti in computergrafica.

Uno studio del 2003 rivela che in quell'anno il 77% dei film reperibili in rete era riconducibile dall'attività illecita di un insider; nello stesso anno solo il 5% dei film pirata ha fatto la sua comparsa on-line solamente dopo essere stato pubblicato in DVD.[85]

 

È tuttavia importante segnalare una distinzione tra la pirateria off-line, che presuppone che lo spettatore paghi per una copia pirata, alimentando così il giro d’affari del mercato criminale e negando utili all’industria cinematografica, e la pirateria di massa on-line, che invece non muove denaro. Si può notare come, a differenza di imprenditori che duplicano e rivendono illegalmente film ottenuti anche tramite internet, i release team non percepiscano alcun compenso economico dalla loro attività illecita, e siano anzi avversi a qualunque forma di vendita del materiale pirata, sia on-line tramite siti illegali di warez[86] che tramite venditori ambulanti, legati quindi a una copia fisica.

Ciò che anima questa tipologia di pirati, analogamente a come accade per i writers[87] che dipingono clandestinamente interi vagoni ferroviari, è l'orgoglio di diffondere il nome del proprio team, anche inserendolo in sovrimpressione dopo i titoli di coda di un film. Sebbene essi lo considerino una sorta di gioco epico tra clan rivali, è evidente che la loro visione del concetto di copyright non coincide affatto con le esigenze delle major hollywoodiane.

 

Il fenomeno della condivisione di file via internet, in continuo aumento grazie alla diffusione sempre più ampia di connessioni a banda larga, permette ad un numero crescente di spettatori di fruire di opere cinematografiche ottenute attraverso circuiti illegali.

Il software Napster rappresenta un ottimo esempio di come la pirateria possa dare origine ad un modello commerciale. Tale applicazione, lanciata nel 1999, che implementava il modello peer-to-peer (P2P, ovvero da utente a utente), era stata concepita come un modo per condividere via internet una parte della memoria del proprio hard disk, con la possibilità di accedere alle cartelle condivise di tutti gli altri utenti.

Napster ebbe un successo esplosivo, arrivando a contare oltre un milione di utenti solo in Italia[88], tanto da rivoluzionare le modalità di fruizione di musica da parte dei giovani, ma danneggiando pesantemente il mercato discografico: il P2P permette ad esempio di ottenere un brano di successo senza dover comprare l'intero album; addirittura sorpassa l'offerta del mercato legale, facendosi piattaforma di distribuzione di brani rari, composizioni originali e registrazioni inedite.

A causa della violazione di massa del copyright, furono intentate diverse cause legali che infine imposero nel 2001 l'interruzione del servizio a Napster, che venne poi convertito in un negozio di musica on-line.

Nel 2002 il modello P2P ha trovato una migliore applicazione nel protocollo BitTorrent, che si faceva carico, in congiunzione con altre tecnologie come il codec DivX, della condivisione di film e di intere serie televisive.

Indipendentemente dai risvolti etici che determina, la pirateria ha il merito di avere reso disponibili a tutti tecnologie per il trasferimento di file su larga banda, procedimento che non a caso oggi trova impiego in molte attività lecite.

BitTorrent costituisce ora un nuovo modello di business per Hollywood, che può avvalersi dell'eccellente funzionalità di consegna di file richiesti da molti utenti contemporaneamente. La compagnia BitTorrent, che mantiene il protocollo omonimo, ha stretto accordi con Warner Bros., 20th Century Fox, MGM, nonchè con Playboy e produttori di contenuti affini.[89] BitTorrent mette in vendita i contenuti dei suoi partner, e ne distribuisce gratuitamente trailer e contenuti extra.

Il modello di business distributivo concepito in seno alle attività pirata si evolve ora in formule per il download legale di musica e film, il cui 70% è raccolto dal solo iTunes Store Apple.[90]

L’industria musicale e quella cinematografica, nel tentativo di scoraggiare ogni utilizzo dei propri contenuti diverso dalla fruizione privata, hanno adottato diverse misure tecniche per prevenire la diffusione di copie digitali.

Il Digital Millennium Copyright Act, approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1998, impone ad ogni produttore di sistemi video digitali e analogici di supportare il sistema anticopia Macrovision, sviluppato dall'omonima azienda, lo stesso che protegge la maggior parte dei DVD commerciali. Il Digital Millennium Copyright Act, unitamente a una direttiva equivalente emessa nel 2001 dal Parlamento europeo, la European Union Copyright Directive, definiscono con precisione quali siano i diritti dei detentori del copyright sulle opere d'ingegno, oltre che promulgare nuove norme riguardo alle misure tecnologiche di restrizione dei diritti.

Le aziende legate alla produzione e alla distribuzione digitale di opere d'ingegno, nell'intento di tutelare i propri interessi limitando l'uso che gli utenti possono fare dei file digitali, hanno promosso la diffusione di sistemi

DRM (Digital rights management, gestione digitale dei diritti).

Il termine raccoglie le diverse forme di tecnologie per il controllo o la restrizione dell'accesso ai file digitali, e per la limitazione o l'inibizione della riproduzione della copia su un supporto diverso dall'originale.

Tuttavia il DRM, che per le restrizioni che impone è stato decretato illegale in alcuni paesi[91], appare più che altro come una pratica volta a vincolare gli utenti ad una specifica tecnologia ad interoperabilità limitata, a vantaggio quindi di una cerchia ristretta di aziende. È il caso della musica, dei video musicali e dei film acquistati presso l'iTunes Store, che sono riproducibili solo su iPod o altri dispositivi Apple.

I sistemi DRM che dal 2002 proteggevano i CD audio delle maggiori compagnie discografiche, si sono rivelati presto inefficaci, perché aggirabili con appositi software di facile reperimento. Inoltre, il fatto che il DRM limitasse anche alcuni usi leciti del supporto, come la riproduzione tramite il lettore CD di un computer, ha contribuito alla decisione di tutte le maggiori compagnie discografiche[92] di cessare completamente l'utilizzo di ogni sistema DRM.

Come per i sistemi anticopia impiegati nei CD audio, la totalità delle tecnologie di protezione per i DVD è neutralizzabile mediante l’impiego di software molto diffusi, così come il sistema Macrovision. Persino le protezioni digitali dei nuovi formati Blu-Ray e HD-DVD sono state violate.[93] Allo stato attuale, non risulta presente sul mercato un sistema di prevenzione della duplicazione che non risulti possibile aggirare.

 

Nelle sale cinematografiche italiane, prima della proiezione del film, viene mostrato agli spettatori uno spot istituzionale che ricorda come scaricare un film dalla rete equivale a rubarlo, e che questo costituisce un reato alla stregua di un furto d'auto o di una borsa.

Tale messaggio, che mira ad un forte impatto emotivo, potrebbe sembrare inadatto ad essere mostrato agli spettatori in sala, che sono fruitori paganti.

Si può immaginare che la decisione di mostrare lo spot e ammonire i clienti legittimi più che i pirati scaturisca dalla consapevolezza che il downolad dei film è un fenomeno diffuso a tutti i livelli sociali, non controllabile tecnicamente, e che soprattutto viene ormai percepito come un'infrazione tollerabile.

La pirateria on-line può essere considerata come una reazione ad un vecchio sistema produttivo e distributivo, il cui intento sembrerebbe quello di aumentare i propri profitti sottraendo diritti elementari all'acquirente perché incapace di tenere il passo coi tempi.

Il sistema dell'entertainment vede oggi ridotti i grandi profitti di cui godeva, minacciato dalla libertà che l'alfabetizzazione informatica apporta all'utente finale, ora non più destinatario passivo ma coscienzioso acquirente dei soli prodotti che egli reputerà validi.

Si diffondono così in rete le iniziative di gruppi di persone che si adoperano affinchè le opere dell'ingegno finanziate con soldi pubblici siano rese pubblicamente accessibili[94], o che, come nel caso del collettivo che ha dato vita al progetto iwouldntsteal.net, si fanno carico di azioni di guerriglia mediatica a favore del P2P:

L'industria dei media ha fallito nell’offrire vantaggiose alternative legali alla condivisione on-line e fallirà nel convincere i consumatori che condividere equivale a rubare. Sfortunatamente, ha avuto successo in un’altra area: nell'esercitare pressioni lobbistiche sui legislatori, in modo da mettere fuorilegge la condivisione e trasformare i consumatori in criminali. L'industria sostiene che le sue leggi siano necessarie per difendere i diritti degli artisti, ma in realtà ciò che sta proteggendo è solo il proprio profitto.[95]

In conclusione, sebbene la pirateria via internet abbia decretato la crisi di un intero sistema mediatico-industriale e minacci gli equilibri dell'industria cinematografica mondiale, allo stato attuale non è possibile stabilire con certezza se ed eventualmente quanto la violazione di massa del copyright danneggi realmente la produzione e la diffusione di nuove opere.

3.3 Da spettatore a fabbricatore

Il cinema, nel rivolgersi ad un destinatario, pone a suo carico alcuni compiti: uno di questi è la decodifica del linguaggio filmico, che può estendersi su vari livelli di significato. Inoltre, la partecipazione dello spettatore è necessaria per completare il senso del film, attuando operazioni come la selezione delle informazioni e la loro interpretazione.

Valeria De Rubeis, ricercatrice dell'Università La Sapienza, ha osservato un ulteriore aspetto del ruolo attivo rivestito dallo spettatore:

Considerando separatamente gli aspetti tecnici da quelli onirici, il cinema risulta un ibrido che media l'esperienza del reale e accende nuovi processi psichici. Questo perché il pubblico è chiamato a trasformare la tecnologia in "magia", coniugando ragione e sentimento.[96]

Un caso esemplare di narrazione volutamente imperfetta, che parrebbe completarsi solo grazie all'intelletto dello spettatore, è Mulholland Drive (Mulholland Dr., David Lynch, 2001), che sul piano narrativo, coerentemente allo stile del regista, trabocca di simboli il cui significato non è esplicito, né comune ad alcun sistema di rappresentazione noto. Il film quindi mostra significanti il cui significato è diverso per ogni spettatore.

L'operazione, in particolare la presenza di una misteriosa scatola blu il cui contenuto non viene mostrato, è la stessa attuata da Luis Buñuel in Bella di giorno (Belle de jour, 1967), in cui la protagonista riceve in regalo una scatolina da cui proviene un ronzio. La sequenza non permette di determinare cosa vi sia dentro, e così il meccanismo stimola l'immaginazione dello spettatore. È interessante ricordare come al funzionario italiano preposto alla redazione del visto di censura risultò impossibile non dare una interpretazione soggettiva della sequenza, indicando nella documentazione da lui prodotta che il contenuto della scatola fosse una mosca.

 

La partecipazione attiva dello spettatore si rende necessaria anche in esperimenti come Timecode (Mike Figgis, 2000), opera che avremo modo di analizzare più avanti. Film come questo richiedono che lo spettatore alteri la propria modalità di visione, costringendolo a selezionare con lo sguardo la porzione del quadro che intende seguire, in una sorta di «zapping oculare».

 

L'abbassamento dei prezzi e la facilità di reperimento di tecnologie audiovisive consumer, cioè destinate all'utente medio, ha comportato la definizione di un processo di progressiva «democratizzazione» di ripresa e montaggio, attività che in passato erano appannaggio esclusivo di studi e aziende specializzate.

La premessa dell'addomesticamento della tecnologia video è la possibilità per chiunque di farsi regista e curare ogni aspetto della propria opera, dall'ideazione alla post-produzione, fino alla sua diffusione.

Michela Greco, nel suo saggio sull'impiego del digitale nel cinema italiano, sottolinea il carattere di individualità apportato dalla «democrazia digitale», capace di produrre una speciale «forma autarchica di cinema».[97]

Sharkwater (Rob Stewart, 2006) è un film documentario scritto, diretto, interpretato, e prodotto dal biologo marino Rob Stewart, che mira ad informare sulle reali condizioni degli squali nel mondo al fine di salvaguardarne la sopravvivenza, minacciata in alcuni mari dalla caccia illegale.[98]

Un ventitrenne canadese dallo psedonimo di Lucifer Valentine ha realizzato il film underground Slaughtered Vomit Dolls (2005), un B-movie che narra di una ragazzina bulimica in costante preda di allucinazioni e incubi. Il giovane autore ha seguito tutte le fasi di lavorazione del film, con l'inconveniente di quella che è stata definita una "one-man-show syndrome", ovvero la difficoltà per un regista di montare un film da lui stesso girato, perché il suo rapporto intimo con le immagini che ha prodotto lo rende incapace di tagliarle.[99] Il film, che non poteva contare su un particolare supporto della critica, ha goduto di un discreto successo di nicchia grazie all'azione in rete degli amanti del genere gore[100].

 

Il World Wide Web costituisce per molti operatori indipendenti una grande occasione per la diffusione delle proprie opere audiovisive, a costi ridotti o nulli. Spazi di promozione capaci di raggiungere un'audience mondiale sono a disposizione di ogni filmaker, rendendo possibile il confronto su scala internazionale di diverse forze creative.

Interazione e cooperazione tra utenti contraddistinguono quello che prende il nome di "Web 2.0", termine che indica l'insieme di contenuti messi in rete dagli utenti stessi, e che viene idealmente opposto ad una concezione del web come piattaforma attraverso cui i grandi distributori di contenuti possano veicolare i propri prodotti.

La raggiunta maturità delle infrastrutture per la telecomunicazione e degli standard su cui è costruito il web ha consentito, negli ultimi tre anni, il proliferare di servizi di video-sharing, ovvero siti per la condivisione di materiale video, come "Youtube", "Metacafe" e "Vimeo".

Si realizza così la profezia di Andy Warhol, secondo cui «in futuro tutti saranno famosi per quindici minuti», frase scelta come incipit di 15 minuti: Follia omicida a New York (15 Minutes, John Herzfeld, 2001).

I portali di video-sharing danno vita ad un sistema veramente meritocratico, perché i contributi video possono essere catalogati per genere, commentati e votati, accrescendo così la propria visibilità.

Tuttavia, osservando le classifiche dei video guardati con più frequenza, si nota come tra quelli che si mantengono ai vertici non figurino quasi per nulla opere di finzione, e vi sia invece una predominanza di filmati divertenti, o riprese di attività curiose, rientranti comunque a pieno titolo nella definizione di "entertainment".

 

La facilità con cui è possibile dare vita a progetti cooperativi è l'origine di entusiastici tentativi di coinvolgimento dello spettatore nella co-produzione di film o documentari, anche quando questi debbano ancora essere realizzati.

Al destinatario finale viene chiesto di contribuire economicamente al budget di produzione pre-acquistando una copia del dvd, azzerando così il rischio di un insuccesso commerciale. Per ogni proposito di produzione collettiva è richiesto che un numero minimo di persone aderiscano al progetto, per garantire che le spese di produzione siano recuperate.

Il produttore e autore Matt Hanson ha avviato nel 2005 il progetto per la realizzazione del film A Swarm of Angels, definito come un primo esempio di «cinema 2.0».[101] L'idea è di fare aderire all'iniziativa 50.000 sottoscrittori, per l'appunto lo stormo di angeli del titolo, perché finanzino il film e ne discutano gli aspetti organizzativi e artistici tramite un forum. La campagna promozionale del progetto pone particolare fiducia sulle potenzialità relazionali e di marketing dello «stormo». Il film dovrebbe poi essere rilasciato con una licenza Creative-Commons, che ne permetta una libera riedizione creativa e lo mantenga libero da eventuali lucchetti elettronici.

 

Il sito “AdoptThisMovie.com”[102], per la realizzazione del film A Midsummer Nightmare, ancora in pre-produzione, ha chiesto ai visitatori di contribuire alle spese di produzione "adottando" un fotogramma del film per 10 dollari.

 

In Italia The Role Player[103], sottotitolato come «il primo film interattivo», è un progetto di produzione dal basso, vale a dire sostenuto economicamente con una sottoscrizione popolare. I partecipanti all'iniziativa hanno potere decisionale su molti aspetti artistici del film, pronunciandosi su scelta degli attori, commento musicale, montaggio del trailer, e potranno seguire in streaming le fasi di ripresa. Nonostante l'interesse della stampa per il progetto, la difficoltà a raggiungere la quota di sostenitori prestabilita ha fatto rimandare di anno in anno l'avvio della fase di produzione.

In maniera simile, l'ambizioso progetto "AdoptAMovie.com"[104], avviato nel 2006, prevedeva di raggiungere la cifra di due milioni di dollari entro il gennaio 2008, promettendo di accreditare i donatori nei titoli di coda come produttori associati. Attualmente, il progetto è fermo ad una cifra di poco superiore ai duemila dollari.

Si può supporre che l'incertezza economica che mina queste iniziative possa essere abbattuta garantendosi in parte l'accesso a finanziamenti derivati dal coinvolgimento di aziende che abbiano un ruolo nella distribuzione, come ad esempio le compagnie televisive.

 

Tuttavia, nell’esempio delle produzioni dal basso, il valore aggiunto è dato dalla condivisione dell'esperienza e delle conoscenze professionali, in linea con la filosofia alla base di internet.

"SelfCinema-Adopt-a-movie"[105] è un'associazione italiana che si propone di distribuire film indipendenti, spingendo gli spettatori ad «adottarli». Il suo proposito si è realizzato nella distribuzione in sala della pellicola L'estate di mio fratello (Pietro Reggiani, 2005), solo dopo aver raccolto un fondo di base tramite le prevendite.

 

Anche in ambito musicale, le possibilità promozionali offerte da internet hanno dato vita a sistemi innovativi di finanziamento, da parte dei navigatori, di opere in via di realizzazione.

"Sellaband.com"[106] è un servizio on-line che permette l'ascolto e il finanziamento di band che aspirano a produrre un disco. Se la band raccoglie sufficienti donazioni, viene chiamata a registrare un album da vendere on-line e sul mercato discografico internazionale, ridistribuendo una percentuale degli incassi agli utenti che avevano finanziato il disco in origine.

 

In occasione del lancio nelle sale di film molto attesi, perché adattamenti cinematografici di libri o videogame che già avevano cementificato un rapporto idolatrico tra fan e opera, come nel caso dei film su Harry Potter (Chris Columbus et alii, 2001, 2002, 2004, 2005, 2007), ha luogo una sorta di «evento-film», cui a volte gli spettatori pervengono in costume, vestiti come i personaggi del film, secondo un fenomeno che prende il nome di cos-play (contrazione di costume play).

Un film diventa cult solo se viene percepito come tale da una comunità di appassionati, esercitando quindi il potere di determinare l'appartenenza di un individuo ad una cerchia di persone a lui affini, e di conseguenza anche la sua identità.

3.4 Finzioni interattive

Il cinema è una macchina narrativa che conduce lo spettatore attraverso un racconto per successione di immagini. Lo scambio unidirezionale di informazioni nega allo spettatore qualunque interazione con il film, salvo che per il controllo della riproduzione e per alcune limitate operazioni possibili con DVD multiangolari.

L'interattività propria del videogame è ontolologicamente differente dalla narrazione del cinema perché non si fonda esclusivamente sulla rappresentazione, bensì sulla simulazione. Il videogame non si limita a rappresentare gli elementi della narrazione, ma ne riproduce il comportamento all'interno di un determinato sistema spaziale, dotato di leggi fisiche proprie.

Le modalità di intervento sugli elementi di gioco variano da titolo a titolo, ma è il videogame stesso a formare le abilità del giocatore, istruendolo ed allenandolo nel corso del gioco.

L'immersione in un videogame è assai prolungata rispetto al film: se questo dura di norma un'ora e mezza, il videogame può richiedere mesi per essere completato, o addirittura può non raggiungere mai un punto d'arresto.

Lo spettatore non accredita più al cinema l'eccezionalità della visione, preferendo per tale scopo, ad esempio, la grafica ad alta definizione delle consolle di ultima generazione, o forme ludiche di realtà virtuale.

Sebbene nel 2005 l'industria americana dei film continuasse ad essere più redditizia dell'industria videoludica[107], oggi il prodotto del settore entertainment che garantisce i maggiori profitti sembra essere proprio il videogame.

Il cinema potrebbe trarre spunto da alcune modalità produttive adottate dall'industria dei videogame, ad esempio la scrittura altamente cooperativa di soggetti, o il rapido adattamento al sistema distributivo digitale.

Halo 3 (Bungie Studios, 2007), distribuito da Microsoft, ha ottenuto il primato di 300 milioni di dollari di incassi per le vendite del gioco nella sua prima settimana sul mercato.[108]

Halo 3, come molti degli altri best-seller del settore, appartiene al genere first-person shooter (FPS), ovvero sparatutto in prima persona, un tipo di gioco che deve il proprio nome alla modalità di visione proposta al giocatore. Il FPS ricalca il punto di vista del personaggio del gioco, come avviene per un'inquadratura soggettiva impiegata nei film.

I giochi più venduti sono quindi quellli che attuano una «messa in azione», più che una «messa in scena», di una simulazione di conflitti bellici. L'azione del giocatore si risolve nell'impiegare armi da fuoco per abbattere dei nemici, animati da un'intelligenza artificiale o da altri giocatori umani, che tenteranno di neutralizzarlo a loro volta.

I videogame possono raggiungere livelli di immedesimazione molto alti.

Nel gioco Quake (id Software, 1996), il giocatore può sostituire il volto dei nemici con fotografie reali. Nella serie di Halo, per favorire nel giocatore l'identificazione con il guerriero protagonista, questi non è mai mostrato senza la sua armatura. Il casco del soldato è quindi una maschera in cui ogni giocatore può vedere sé stesso.[109]

La visione di un film può suscitare nello spettatore il riso, ma anche commozione o tensione, mentre le emozioni prodotte da un videogame possono superare il film nel grado di intensità con cui si manifestano, perché il giocatore, controllando il personaggio come fa un marionettista con il suo fantoccio, attua un'operazione di transfert nel corpo dell'attore virtuale, divenendo un tutt’uno con quest'ultimo.

L'impatto di tale scissione sulla psiche umana, in particolare sui minori, tra realtà e finzione, è all'origine del timore che un gioco violento possa influenzare negativamente il comportamento dell'individuo nella vita reale.

Il videogame, proprio perché percepito dall'utente come dimensione virtuale, è considerato perlopiù come una temporanea evasione dalla realtà, in grado di intrattenere il giocatore permettendogli azioni non ripetibili all'infuori del gioco.

Nel macabro videogame Carmageddon (Stainless Games, 1997), ispirato al film Anno 2000: La Corsa Della Morte (Death Race 2000, Paul Bartel, 1975) il giocatore, alla guida di automobili corazzate, deve investire e uccidere i pedoni per aumentare il proprio punteggio. In Italia il gioco è stato censurato per l’eccessiva violenza, imponendo agli sviluppatori di sostituire le figure umane con degli zombi.

 

L'esigenza di presentare al giocatore un intreccio narrativo, e di fornirgli le informazioni utili a definire i personaggi e a comprendere le motivazioni che li animano, richiede il ricorso a sequenze audiovisive non interattive che prendano in prestito il linguaggio che è proprio del cinema.

Scene di raccordo tra un livello di gioco e un altro sono piuttosto comuni; a volte queste rivelano un colpo di scena nel plot, per essere subito seguite da un livello di gioco interattivo che scaraventa il giocatore al centro dell'azione.

Nel videogame horror Resident Evil (Biohazard, Capcom, 1996), la cui trama è ispirata ai film di George Romero, al giocatore viene a volte inibito il controllo del personaggio, per permettergli di seguire un copione prestabilito, eseguendo azioni funzionali alla progressione dell'intreccio. Tali sequenze sono evidenziate dall'apparire di due bande orizzontali a margine dello schermo, a simulare il rapporto del fotogramma della pellicola.

The Neverhood (The Neverhood, 1996) e Skullmonkeys (The Neverhood, 1998) sono due videogame creati dall'animatore Doug TenNapel. I due giochi presentano numerosi cortometraggi realizzati in stop-motion in cui figurano i personaggi del gioco, ma la particolarità dei due titoli è che anche la loro grafica interattiva è stata realizzata con l’ausilio di pasta da modellazione. I modellini dei personaggi sono stati fotografati nelle varie pose che compongono i loro movimenti, per essere poi digitalizzati e resi elementi del gioco.

In Street Fighter II: The World Warrior (Capcom, 1991), così come in altri titoli appartenenti al genere picchiaduro, come Fatal Fury (SNK, 1991) e Tekken (Namco, 1994), il giocatore sceglie all'inizio del gioco il proprio combattente, affrontando quindi una serie di incontri di lotta. Con la vittoria del torneo viene narrato un epilogo, ovviamente sempre diverso per ogni combattente con cui si completa il gioco. La sequenza narrativa conclusiva si può così considerare una sorta di ricompensa per l'impegno del giocatore.

 

Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (Konami, 2001) è un ottimo esempio di ibridazione tra cinema e videogame. Il gioco tende a presentarsi come «film interattivo», per il fitto susseguirsi di parti in cui giocare e scene di narrazione. È interessante notare come i titoli di testa del videogame ricordino quelli di un film, e come, dopo aver mostrato i nomi del cast tecnico e artistico, si chiudano con la dicitura «Produced and directed by Hideo Kojima».

 

Ai videogame di impianto tradizionale, la cui struttura narrativa procede linearmente verso una conclusione, è contrapposta una tipologia di videogame a finale aperto, in cui il giocatore è libero di muoversi nello spazio del gioco portando a compimento gli obiettivi che di volta in volta si presentano.

Grand Theft Auto III (Rockstar, 2001) permette l'esplorazione di una vasta area urbana e l'interazione con tutte le persone, gli oggetti e i veicoli dello spazio virtuale. Privo di un plot lineare, presenta invece numerosi sub-plot, che affidano al giocatore compiti che egli potrà risolvere in un ordine arbitrario. Nel gioco, la cui attività principale è il furto d'auto, è possibile commettere crimini per aumentare il proprio punteggio, o addirittura uccidere e derubare delle prostitute dopo avere usufruito delle loro prestazioni. Tuttavia, le azioni criminali sono possibili ma non necessarie, e le forze di polizia nel gioco accorrono per punire il giocatore che infrange la legge.

 

Il successo commerciale di molti titoli videoludici, e il conseguente ingresso dei loro protagonisti nella cosmogonia dei personaggi di finzione, ha sollecitato la realizzazione di film direttamente ispirati ai videogame più famosi. Sono così stati portati sullo schermo Super Mario Bros. (Rocky Morton e Annabel Jankel, 1993), Lara Croft: Tomb Raider (Simon West, 2001), Resident Evil (Paul Anderson, 2002), Doom (Andrzej Bartkowiak, 2005), tutti film omonimi dei videogame da cui sono tratti.

Accade più frequentemente l'operazione inversa, con il lancio sul mercato di videogame ispirati a film, come Ritorno al futuro (Back to the Future, Software Images, 1985), Jurassic Park (Ocean, 1993), e giochi da ogni film Disney degli ultimi venti anni.

I personaggi cinematografici si adattano bene alla loro forma digitale interattiva, perché un videogame tratto da un film può esserne considerato in una certa maniera una riduzione, mantenendo solo alcuni spunti narrativi necessari a ricreare l'intreccio, ed enfatizzando un conlitto o una situazione problematica per la costituzione del gameplay, ovvero l'«esperienza» di gioco, l'insieme delle intuizioni sensibili e delle deduzioni a posteriori[110], e della meccanica imposta dalle regole del gioco.

Non è invece sempre valida l'affermazione inversa, cioè che i personaggi dei videogame si adattino bene alla loro forma filmica:

Il Tomb Rider cinematografico lascia, comunque, un senso di incompletezza perché la storia, che nel gioco è poco più di un pretesto, mostra la sua pesante assenza con l'aggravante che, talora, le acrobazie spericolate di Lara, pur se all'interno di un racconto fantastico, appaiono del tutto irreali mentre risultano assolutamente credibili all'interno del gioco.[111]

Quelli dei film sopra citati, privi dell'interattività che ne contraddistingue la versione videoludica, sono quindi personaggi in cui ci si può solo immedesimare, ma che non è più possibile animare.

Il coinvolgimento dello spettatore all'interno del sistema sensoriale del videogame è alla fine relegato a mero processo mentale, perché limitato all'accoppiata visione-ascolto, al più supportata dall'uso di ‘controller’ capaci di vibrare in risposta all'azione del gioco. Osservare un fantoccio sotto il proprio controllo è un'esperienza sostanzialmente diversa dal percepirsi come parte di un ambiente con cui poter interagire.

 

La realtà simulata del videogame si avvicina, in maniera incompleta, a modelli di realtà virtuale immersiva ipotizzati in passato da film come Tron (Steven Lisberger, 1982), Il tagliaerbe (The Lawnmower Man, Brett Leonard, 1992), eXistenZ (David Cronenberg, 1999) e Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999).

 

Al di là di installazioni artistiche[112] e usi terapeutici[113], la realtà virtuale omnisensoriale non ha finora raggiunto il mercato di massa, perché non esistono ancora i necessari presupposti tecnici per un suo uso orientato all'entertainment.

Forme particolari di interazione in rete tra individui si riscontrano però in progetti come la chat tridimensionale Habbo Hotel (Sulake, 2000), o Second Life (Linden Lab, 2003), un intero mondo virtuale creato come interessante riproduzione dei modelli relazionali umani.

Migliaia di giocatori si ritrovano contemporaneamente a giocare on-line nello stesso spazio virtuale grazie ai Massive Multiplayer Online Role-Playing Game (MMORPG), come World of Warcraft (Blizzard Entertainment, 2004) e Ultima Online (Origin Systems e Electronic Arts, 1997). Osservando l'avatar, alter-ego visivo di ogni giocatore, non si conosce il suo vero aspetto, ma piuttosto l’immagine con cui l'utente, svincolato dalla realtà, ha scelto di rappresentarsi.

Per la promozione dei pagamenti elettronici Visa è stato trasmesso uno spot televisivo in cui due ragazze si trovano su un autobus che subisce il sequestro da parte di alcuni criminali. La visione della scena, che parrebbe appunto l'incipit di un film, viene interrotta allo spettatore dello spot con le due ragazze sedute ad una postazione di un futuristico «cinema totale»[114]. Dopo aver effettuato il pagamento elettronico, le due si trovano nuovamente a vivere il film, e non come semplici spettatrici, perché presenti sulla scena e coinvolte direttamente nell'azione. Lo spot si chiude sull'autista del bus, interpretato da Bruce Willis, che invita le ragazze a prepararsi a una corsa mozzafiato.

 

René Barjavel è autore di un saggio che può essere considerato come una sorta di vaticinio lungimirante, considerando che è stato scritto ancor prima dell'avvento del colore nel cinema. Barjavel, stimolato dalle novità che sarebbero state apportate di lì a poco dalla televisione, scriveva:

Ci sembra che non si perverrà a una soluzione soddisfacente finché il cinema sarà schiavo di una pellicola piana che si chiama film. Trasformare un'immagine piana in immagine a tre dimensioni, anche proiettandola su uno schermo sferico, ci sembra non soltanto difficile, ma illogico.

In verità, occorrerà trasformare direttamente in onde le immagini degli oggetti reali, poi queste onde in immagini virtuali.

Queste immagini saranno materializzate senza lo schermo, o nel riquadro di uno schermo voluminoso e trasparente, forse anche immateriale, costituito, anche lui, da un fascio di onde.[115]

Nell'interrogarsi sul modo in cui gli autori del futuro avrebbero fatto uso dei nuovi strumenti, Barjavel riserva ancora al suo «cinema totale» il carattere di finzione come fondamento ontologico:

Eppure, ogni progresso effettuato dalla settima arte, se le permette di avvicinarsi sempre più al reale, fino all'illusione perfetta, le dà giustamente il mezzo di giocare con questo reale, di servirsi di queste apparenze immateriali ingannevoli per trascinare lo spettatore nel mondo dell'illusione, dell'assurdo, del meraviglioso. Il rilievo giocherà veramente il suo ruolo quando sarà utilizzato per trasformare la realtà solida in fantasmi fugaci, e i fantasmi fiabeschi in esseri reali.[116]

IV – Espressioni estetiche del cinema digitale

La possibilità di riprodurre il reale in modo iperrealistico, o di generare elementi che non siano riprese dal vero, dona all'immagine digitale una maggiore capacità espressiva. Per gli autori aumentano, di conseguenza, le possibilità di manipolazione delle immagini, che, non avendo necessariamente un referente concreto, si prestano alla rielaborazione del loro significato.

In questo capitolo osserveremo le diverse tipologie di intervento digitale che è possibile effettuare sul film, ponendo particolare attenzione ai diversi usi degli effetti speciali, e come questi si possano differenziare in relazione allo spettatore. Indagheremo inoltre sull’impiego di attori virtuali, cercando di evidenziare i vantaggi e i limiti di tali operazioni. Concluderemo infine la nostra ricerca osservando alcuni casi notevoli di film girati interamente con tecnologie digitali.

4.1 Creazione dell’inesistente

I registi e gli sceneggiatori, affiancati dalla nuova figura del direttore artistico degli effetti visuali, già in fase di pre-produzione possono contare sulle possibilità creative offerte dalla CGI, Computer-generated imagery, l'immagine sintetica che integra o sostituisce la ripresa dal vero.

 

Il cinema permette di mostrare sullo schermo topolini parlanti (Stuart Little, Rob Minkoff, 1999), o di fondere insieme riprese di più animali per animare una chimera o un minotauro (Le Cronache di Narnia: Il Leone, la Strega e l’Armadio, The Chronicles of Narnia: The Lion, the Witch and the Wardrobe, Andrew Adamson, 2005), fino a rappresentare forme aliene (Mars Attacks!, Tim Burton, 1996). Il cinema arriva a mostrare forme di vita mai viste, che però sono state necessariamente immaginate, prima che la loro immagine fosse generata.

Il limite che determina cosa si possa vedere in un film è dato unicamente dalla fantasia di chi concepisce il film e il suo contenuto visivo:

Sembra, dunque, che la tecnologia digitale abbia ribaltato un rapporto vecchio almeno quanto il cinematografo: se, fino ad una certa data, il cinema fantasmatizzava il reale riproducendo sul grande schermo una realtà che perdeva ogni fisicità, oggi realizza il virtuale, dotandolo di sembianze che lo spettatore non può far a meno di accettare.[117]

Per gli autori del saggio appena citato, esistono due funzioni espletabili dalle immagini digitali, opposte nelle finalità.

La prima applicazione, come si è visto, è dare corpo a creazioni irreali, come nel caso di forme di vita aliene o di tecnologie non ancora inventate.

Un secondo possibile uso delle immagini digitali risiede nel ricreare ciò che non si può realmente porre di fronte alla camera. Spesso è più semplice ed economico per una produzione fare ricorso alla computergrafica per ambientare una scena in mare o nello spazio: gli ambienti virtuali faranno così da sfondo per le immagini degli attori ripresi in studio.

La grande conquista del digitale [...] consiste proprio nella perfetta integrazione, all'interno dell'immagine filmica, di realtà e virtualità, di analogico e digitale, di continuo e discreto, tale da rendere impossibile allo spettatore la distinzione di cosa appartenga all'uno e cosa all'altro, proprio come viene testimoniato dalla perfetta ed armoniosa convivenza di reale e sintetico nell'oceano e nelle comparse che popolano il Titanic di Cameron.[118]

Il film del 1997, il più costoso della storia del cinema con i suoi duecento milioni di dollari di budget, è un ottimo esempio di come la tecnologia informatica possa sostituirsi alla cinepresa nella produzione di immagini. Molte scene del film sarebbero state impossibili da ottenere senza che le comparse restassero uccise nell'azione.

A gremire il quadretto romantico attorno a cui è costruito il film, trova posto un grande numero di comparse digitali che si somma a quelle realmente presenti sulla scena, con un effetto tanto realistico che non si riescono più a discernere i pixel dalla folla.

Sul piano tecnico, è stato possibile animare le comparse virtuali di Titanic ricorrendo alla tecnica del motion-capture, che ha richiesto la ripresa in studio dei movimenti di stuntman in carne ed ossa, provvisti di sensori su tutto il corpo. L'elaborazione al computer ha poi abbinato al movimento così registrato immagini di comparse in abiti d'epoca. Il risultato è una ricostruzione molto realistica di una figura umana in movimento.[119]

 

Il grado di fotorealismo che è oggi possibile ottenere consente, oltre alla riproduzione di immagini naturali, anche la generazione di immagini che non abbiano un referente reale. È allora possibile creare l'inesistente, metterlo in scena come se fosse ripreso dal vivo:

Con l'avvento della tecnologia digitale l'uomo conquista la possibilità, sinora inedita, di concepire l'inconcepibile, di materializzare oggetti e forme al di fuori di ciò che è in natura, diventando egli stesso, in un certo senso, quella Natura Naturans di concezione medievale e sfidando Dio nella creazione di mondi, personaggi, storie che seppur soltanto esistenti su uno schermo, posseggono una capacità illusionistica mai raggiunta prima d'ora […]; non più semplicemente ri-produttore, l'artefice delle nuove immagini sintetiche si fa produttore di territori vergini e di realtà di volta in volta nuove.[120]

Nel 1999 l'eclettico Spike Jonze gira un film, per molti aspetti innovativo, scritto dallo sceneggiatore Charlie Kaufman, Essere John Malkovich (Being John Malkovich). Nel racconto, un marionettista trova un passaggio per entrare temporaneamente nella mente di John Malkovich. L'attore, che riveste il ruolo di sé stesso, arriva poi a fare uso egli stesso di tale passaggio. Ciò che si troverà davanti è una dimensione parallela in cui tutte le figure umane hanno il medesimo volto: il suo.

Per lo spettatore, questa è la sequenza del film dal maggiore impatto visivo e drammatico. Il volto di Malkovich è perfettamente innestato nei corpi, maschili e femminili, che affollano il locale. La forza del film è data anche dal senso di straniamento prodotto da questa immagine, tanto irreale quanto fotorealistica.

 

La rappresentazione digitale fotorealistica, sebbene non sia reale, non assume un carattere di irrealtà, e agli occhi dello spettatore appare, se non reale, perlomeno realistica. Non si potrà stabilire con certezza, quindi, se essa sia naturale o meno.

Nel film australiano Till Human Voices Wake Us (Michael Petroni, 2002), i protagonisti si ritrovano ai piedi di quello che appare essere un albero decorato a festa. Le luci che addobbavano l'albero si rivelano poi essere lucciole che tutte insieme volano in cielo. Ovviamente, l'effetto di luce è interamente realizzato in post-produzione con tecnologie digitali.

Spesso l'artificio viene nascosto, reso non evidente: il pubblico che popolava il Colosseo ne Il Gladiatore (Gladiator, Ridley Scott, 2000) non era reale, o perlomeno lo era solo in parte, dato che un piccolo gruppo di comparse è stato ripreso da più angolazioni e poi replicato per riempire tutti i maeniana[121].

L'effetto speciale non viene percepito come tale, e lo spettatore è portato a credere che la folla sui gradini sia tutta reale.

 

Nel monologo pronunciato dal protagonista di Lisbon Story (Lisbon Story, Wim Wenders, 1994), Wenders esprime tutte le sue perplessità riguardo la natura riproduttiva del cinema:

Memoria: perché tutto è passato. E chi ci garantisce che quello che immaginiamo sia passato, sia passato realmente? [...] la cinepresa può fissare un momento, ma quel momento è già passato. In fondo, quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento. E abbiamo la certezza che quel momento sia esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è la garanzia dell’esistenza di quel momento?

Se si intende che «un'immagine fotografica è […] qualcosa che mantiene una relazione particolarmente stretta con la realtà che riproduce, al punto di conservare in sé alcune sue caratteristiche», e che si individua «nella natura di calco del reale la sua caratteristica peculiare»[122], si sta valutando l'immagine come 'analogon' del reale, in virtù del processo di 'mimesis' attuato da ogni riproduzione visiva.

[Il cinema digitale] abbatte inoltre la classica distinzione tra Lumière e Méliès, tra realismo e finzione. [...] Il cinema si libera dalle catene della realtà, dalle attribuzioni benjaminiane di "riproducibilità", per affermarsi in maniera indipendente. Non più realtà ma realismo del finzionale che esige una nuova alfabetizzazione, come già dopo la Nouvelle Vague.[123]

Le possibilità di elaborazione proprie del digitale slegano il cinema dalla sua antica funzione riproduttiva, avviandolo verso la produzione di immagini indipendenti dal reale. Questo nuovo regime eleva l'immagine a linguaggio, facendole perdere lo statuto di referente, non codificato, del reale[124]. L'immagine cinematografica, ora più vicina alla pre-visualizzazione mentale del regista, può assumere qualunque significato, controllata dalla logica e dalle regole grammaticali dettate di volta in volta dal film.

4.2 Normali effetti speciali

L'adozione di nuove tecnologie di ripresa e l'uso di formati digitali, che permettono di controllare i livelli colorimetrici dell'immagine in un momento posteriore allo shooting, fanno registrare importanti cambiamenti nelle modalità produttive. Si osserva un «abbandono del set come luogo privilegiato della realizzazione di un'opera cinematografica e un aumento di importanza della postproduzione come reale momento di creazione».[125]

Ad un certo livello di intervento, le riprese, necessarie ma non più sufficienti a restituire l'immagine desiderata, possono oggi essere considerate come semplici parti di un processo ben più elaborato. Ciò che si ottiene in sede di ripresa è materiale utile per la manipolazione digitale perché componibile, scalabile e replicabile.

Rick McCallum, produttore della trilogia dei prequel di Star Wars, prima dell'inizio delle riprese di Star Wars: Episodio II - L'attacco dei cloni (Star Wars: Episode II - Attack of the Clones, George Lucas, 2002), racconta in un'intervista che le riprese del film sarebbero durate in totale tre mesi. Il piano di lavorazione, però, destinava diciotto mesi alla post-produzione.[126]

 

Ogni film è un processo collaborativo, anche qualora il regista tendesse ad offuscare le personalità dei suoi collaboratori. Se in alcuni casi, come si osserverà più avanti, l'agilità digitale di un set può lasciare spazio all'improvvisazione, è pur vero che per le grandi produzioni è necessaria una rigida pianificazione su cosa debba essere girato e cosa vada elaborato in post-produzione.

Non viene perduta quella componente di casualità e ispirazione da cui scaturisce il prodotto artistico; semplicemente si sposta il momento creativo dal set allo studio e al banco di montaggio, che oggi altro non è altro che un computer.

 

Gli effetti digitali di compositing integrano e sorpassano la macchina da presa, ricreando i suoi movimenti o giustapponendo all'interno del quadro spazi diversi. Si guarda già alla pellicola cinematografica con nostalgia, tanto che esistono comandi nei software video capaci di simulare le proprietà della pellicola: la sua grana, il tipico cromatismo agglutinante, persino i graffi e gli errori della stampa a contatto.

 

Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, Jean-Pierre Jeunet, 2001) è un immaginifico film in cui figurano molti effetti visivi ben inseriti nel tessuto narrativo. Quando la protagonista, per una sua incertezza, affonda nella vergogna, la vediamo letteralmente sciogliersi in una pozza d'acqua. La società parigina Duboi ha curato la correzione colore digitale del film, impiegandovi il proprio sistema Duboicolor. Dopo avere acquisito in digitale la pellicola ed effettuato la calibrazione dei colori al computer, l'immagine è stata riportata su pellicola tramite un processo interamente digitale.[127]

Jeunet aveva adottato effetti speciali visuali già con Delicatessen (Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, 1991), in cui la camera si avventura in un piano sequenza impossibile, lungo le tubature dell'edificio in cui è ambientato il film. Ovviamente, la macchina da presa non ha davvero percorso quei cunicoli: la sequenza è stata generata in computergrafica, simulando ruggine e riflessi del metallo ed avendo cura di innestare la fine del movimento di macchina virtuale sul movimento della camera reale che ha ripreso lo spazio fuori dal tubo. Immagini come questa invalidano la teoria baziniana secondo cui il piano sequenza, grazie all'assenza di stacchi e quindi di manipolazioni dell'azione, sarebbe garanzia di realtà.

 

Lo spettatore non si aspetta che ciò che gli viene mostrato sia reale; lo sviluppo degli effetti visuali è sempre stato orientato verso l'inganno dell'occhio, che ora non può più distinguere cosa sia realmente esistente nel mondo fisico e cosa esista solo sotto forma di immagine.

Antonio Costa si pone il problema della distinzione tra i termini «trucco» ed «effetto speciale», proponendo la soluzione di Alberto Farassino, secondo cui «il trucco è ciò che produce l'effetto speciale, […] c'è ma non si vede, l'effetto speciale, invece, come lo spettacolo, si vede e si deve vedere»[128], ma ritiene necessario integrarla con una ulteriore distinzione di Christian Metz. I trucchi del cinema si dividerebbero in profilmici («tutto ciò che viene messo davanti alla macchina da presa perché questa lo 'prenda'») e cinematografici propriamente detti, prodotti durante le riprese o in fase di stampa.[129]

Occorre adesso affiancare a questa ripartizione la nozione di effetto visuale digitale[130], che è appunto l'integrazione di azioni dal vivo con CGI, ad esempio elementi pirotecnici o illuminotecnici, orientata verso la creazione di immagini fotorealistiche.

Accade spesso (Waking Life: Risvegliare la vita, Waking Life, Richard Linklater, 2001; Sin City, Robert Rodriguez, 2005; Renaissance, Christian Volckman, 2006) che in un film gli interventi digitali siano così numerosi e pesanti che non è possibile quantificare realtà e illusione, potendo considerare l'intero film un lungo effetto speciale. Ma secondo Metz già il cinema, se inteso come un unico grande fenomeno che, riproducendo il movimento, tende verso l'illusione di realtà, si potrebbe considerare come un grande effetto speciale.[131]

Metz propone inoltre una importante valutazione dei trucchi in relazione alla percezione che lo spettatore ha di essi. Ne distingue tre tipologie. La prima definisce come trucchi impercettibili tutti gli espedienti che, per mantenere un congruo livello di realismo, vengono nascosti allo spettatore insieme all'esigenza che ha richiesto l'uso di un trucco.

Un esempio nel cinema più tradizionale potrebbe essere la sostituzione di un attore con uno stuntman che deve eseguire azioni difficili o pericolose.

L'avvento dell'elaborazione digitale ha esaltato le capacità del cinema di creare effetti visuali speciali. «Il "miracolo" è avvenuto: tra l'effetto speciale prodotto tradizionalmente e quello digitale passa la medesima differenza esistente tra prestidigitazione (l'illusionismo, appunto) e vera e propria magia.»[132]

Nel cinema digitale, un caso di trucco invisibile è la rimozione, fotogramma per fotogramma, dei cavi che hanno permesso agli attori di volteggiare in cielo nel film La tigre e il dragone (Ang Lee, 2000). O ancora, il film La tigre e la neve (Roberto Benigni, 2005), ambientato a Baghdad, benchè girato in Tunisia. La società milanese Ubik, che ha curato gli effetti visuali del film, ha dovuto quindi "truccare" con il digitale le moschee tunisine per una ricostruzione filologicamente corretta.[133] Il trucco non viene neanche percepito come tale.

La seconda tipologia individuata da Metz accoglie i trucchi invisibili ma percettibili, che suggeriscono indirettamente allo spettatore che la sua visione è mediata da una manipolazione di qualche tipo. Georges Méliès fu grande inventore di trucchi di questo tipo, come la sostituzione, che gli permetteva di far apparire dal nulla diavoli accompagnati da nuvolette di fumo (Le chaudron infernal, 1903). Il volo di Superman (Richard Donner, 1978) è un trucco invisibile ma percettibile: il pubblico non sa che il paesaggio retrostante l'eroe volante è un'immagine proiettata su un telone, sa solo che l'attore non ha volato davvero e che quindi per realizzare la sequenza si è dovuto ricorrere a un espediente.

Industrial Light & Magic è la compagnia che nel 2003 ha vinto il premio Oscar per i migliori effetti speciali con Jurassic Park (Steven Spielberg). Per il film sono state adottate innovative tecniche di computergrafica, che hanno permesso un'animazione molto credibile dei dinosauri. Anche qui, il trucco è invisibile, ma percettibile, perché di Tyrannosaurus Rex ammaestrati non se ne trovano sul mercato.

La terza e ultima categoria è quella dei trucchi visibili. Per Metz il cinema usa i suoi espedienti tecnici come punteggiatura. Manipolazioni proprie del procedimento cinematografico, come la dissolvenza incrociata, il flou o le tendine sono allora 'marche di enunciazione', da considerare come elementi retorici del linguaggio filmico. Il cinema digitale, di conseguenza, deve sviluppare delle marche di enunciazione sue proprie, derivate dall'applicazione delle manipolazioni specifiche del procedimento digitale.

4.3 Recitazione non attoriale

Abbiamo osservato come il momento delle riprese sul set abbia ormai meno peso nella realizzazione di un film che si avvale invece di tecnologie innovative.

Al centro dell'azione c'è sempre l'attore, che però non necessariamente è presente come persona in carne ed ossa.

Già nel 1988 il film Chi ha incastrato Roger Rabbit (Who Framed Roger Rabbit, Robert Zemeckis, 1988) presentava al grande pubblico la possibilità di integrare azione dal vivo e cartoon disegnato a mano. Nel film, i personaggi in cartoon tengono in mano oggetti reali, fanno cadere il mobilio che urtano, guidano veicoli autentici. Gli attori sul set hanno quindi dovuto recitare senza che i loro interlocutori di celluloide fossero già presenti nell'azione. Nel film Alvin Superstar (Alvin and the Chipmunks, Tim Hill, 2007) si ritrova la stessa operazione, cioè l'inserimento di personaggi virtuali (stavolta realizzati in grafica tridimensionale) su uno sfondo ripreso dal vero, con attori reali. Gli attori hanno dato le battute guardando il vuoto, immaginando come i chipmunk[134] reagissero alle loro azioni e muovendosi di conseguenza.

Alcune volte può capitare che l'attore debba interagire con la sua stessa immagine (Il ladro di orchidee, Adaptation, Spike Jonze, 2002) o addirittura abbracciare (Uomo d'acqua dolce, Antonio Albanese, 1996) o schiaffeggiare un'istanza di sè stesso (La cité des enfants perdus, Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, 1995). Per realizzare tali sequenze, l'attore viene ripreso in diverse posizioni, recitando più parti, mentre interagisce con il vuoto o con altri attori che poi in digitale verranno sostituiti con la sua immagine.

Il risultato è un quadro composto in cui lo stesso attore impersona più ruoli.

 

Lo sceneggiatore che sa di poter contare sul compositing digitale può quindi elaborare la narrazione mediante forme letterarie più complesse. È il caso dei film appena citati, che in maniera innovativa mettono tutti in scena variazioni dell'antico tema del doppio.

 

Oltre all'inclusione di elementi sintetici in ambienti concreti, o viceversa (Sky Captain and the World of Tomorrow, Kerry Conran, 2004; Fascisti su Marte, Corrado Guzzanti e Igor Skofic, 2006), l'adozione di sistemi digitali di manipolazione delle immagini apporta la possibilità di intervenire sul girato, accentuando o rimpiazzando alcuni tratti dell'immagine.

 

Nel film The Mask (Chuck Russell, 1994) l'attore protagonista Jim Carrey mostra le esagerate espressioni facciali tipiche della sua recitazione.

L'intervento del computer ha amplificato tali espressioni, deformando ed esagerando i tratti del suo volto, dotandolo di una 'maschera' digitale.

Alla luce delle possibili modificazioni del corpo apportate dall'applicazione di protesi digitali, il ruolo dell'attore sta subendo un deciso ridimensionamento. Egli è tuttavia ancora necessario per via della sua componente biologica, perché «ci mette la carne», quanto serve per mantenere evidente il carattere umano del personaggio.

Un altro film che presenta elaborazioni del corpo dell'attore è La morte ti fa bella (Death becomes her, Robert Zemeckis, 1992), in cui si ricorre ad un uso intensivo del bluescreen e di mascherature di colore blu, apposte su quelle parti del corpo che dovevano essere cancellate per essere poi sostituite da una loro copia virtuale. Nel film, i corpi così ricreati, a differenza di ciò che l'essere umano possa fare realmente, vengono dilatati come gomma, forati, spellati.

 

George Lucas ha sempre alimentato la ricerca e lo sviluppo tecnologico per il cinema, raggiungendo traguardi importanti anche sul fronte della sofisticazione delle riprese dal vivo.

Per Star Wars: Episodio I - La minaccia fantasma (Star Wars: Episode I - The Phantom Menace, 1999), Lucas riesce a trasferire volti ed espressioni degli attori da una ripresa all'altra. La padronanza assoluta degli strumenti creati dalla Industrial Light & Magic ha permesso inoltre di comporre espressioni facciali combinando le diverse parti del volto degli attori, riprese in momenti diversi.[135]

Aumenta il divario tra la recitazione di stampo teatrale, che poggia sulla centralità della performance, e una nuova recitazione cinematografica digitale, che, assecondando un'inclinazione produttiva e non più riproduttiva, non offre alla macchina da presa l'azione per intero, ma solo alcune sue parti, perché queste possano essere manipolate e ricomposte.

 

Per molti registi deve essere sicuramente stimolante l'idea di poter disporre di un cast virtuale con cui rimpiazzare l'attore, liberandosi di tutti i problemi legati alla recitazione dal vero. Alfred Hithcock esaltò le proprietà dei personaggi dei cartoon, invidiando a Walt Disney il miglior cast possibile: «se non gli piace un attore, lo straccia!»[136]

Ripercorrendo la storia del cinema, si nota come sia stato proprio il cartoon a 'incarnare' una libertà d'azione impossibile per la performance umana: Fantasia (Walt Disney's Fantasia, registi vari, 1940), The Flat (Byt, Jan Svenkmeier, 1968), Pink Floyd: The Wall (Alan Parker, 1982).

 

Si trattava di recitazione non umana anche nel caso dei pupazzi animati e degli animatroni[137] (Star Wars - Il ritorno dello Jedi, Star Wars: Episode VI - Return of the Jedi, Richard Marquand, 1983; Labyrinth, Jim Henson, 1986; Meet the Feebles, Peter Jackson, 1989). Il pupazzo ha valenza simbolica, e viene realizzato con una forte caratterizzazione che si rispecchia nel suo aspetto. Per dotarlo di una capacità espressiva che possa stimolare lo spettatore sul piano emotivo, la sua gamma di espressioni viene disegnata tenendo come modello il volto umano. Questo vale per la gommapiuma come per i pixel (Toy Story, John Lasseter, 1995; Shrek, Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001).

 

La nuova frontiera dell'animazione digitale ha quindi raccolto la sfida più grande: la clonazione dell'attore umano.

Attori sintetici indistinguibili da persone in carne ed ossa hanno fatto la loro prima apparizione in Final Fantasy (Final Fantasy: The Spirits Within, Hironobu Sakaguchi, 2001), in cui tutti gli ambienti e i personaggi sono stati ricreati al computer con un impressionante fotorealismo, ancora maggiore nel successivo Final Fantasy VII: Advent Children (Tetsuya Nomura e Takeshi Nozue, 2005). È curioso notare come la protagonista virtuale Aki Ross abbia conquistato copertine e calendari, alla pari di attrici realmente esistenti, che proprio perché reali risultano quasi mancanti della sua perfezione artificiale.

L'uomo compete con la natura nella creazione del bello, e a volte la supera, dando vita a creature prive di imperfezioni. La natura però è sempre presente, suggerendo il canone di bellezza da seguire.

 

Per la trilogia de Il signore degli anelli (The Lord of the Rings, Peter Jackson, 2001, 2002, 2003), l'attore Andy Serkis ha recitato sul set indossando una tuta speciale, provvista di sensori e di marcatori, permettendo così di animare il personaggio di Gollum con la tecnica del motion-capture. Gli animatori del film hanno ricalcato le espressioni facciali dell'attore riprese in 35mm, fotogramma per fotogramma, adattandovi il movimento del modello tridimensionale di Gollum. Lo stesso Serkis ha prestato ancora il suo volto all'animazione del King Kong di Peter Jackson (2005). Per le riprese sono stati apposti 132 marcatori sul volto di Serkis, per poterne catturare ogni movenza. Gli sguardi e le smorfie dello scimmione risultano essere estremamente convincenti ed espressivi.[138]

Le moderne tecnologie di scansione tridimensionale permettono di copiare i tratti di un volto in un modello tridimensionale animabile a piacimento. Un attore che si facesse clonare rischierebbe paradossalmente di farsi rubare il lavoro dalla sua stessa immagine.

In realtà la legislazione americana tutela i diritti che gli attori detengono sulla propria immagine. Un caso giudiziario si è risolto con la condanna di un'agenzia pubblicitaria che aveva utilizzato l'immagine di un sosia di Woody Allen, senza specificare che non si trattava realmente del personaggio famoso.[139]

Nel 2004 Robert Zemeckis realizza un particolare film di Natale per bambini, Polar Express (The Polar Express), in cui tutte le azioni dei personaggi sono state catturate e riprodotte con la tecnologia del performance-capture, che associa al movimento registrato dal vivo l'animazione di modelli umani tridimensionali. Per il film, l'attore Tom Hanks ha dato corpo e volto a cinque distinti personaggi.

In casi come questo, chi opera sul set è una sorta di attore-marionettista, che attraverso il suo corpo ne muove un altro, ma senza usare croci o fili.

L'attore digitale cambia volto come può cambiarsi d'abito.

 

Internet e videogame hanno sottratto al cinema il primato nell'industria dell'entertainment.

Al film si affiancano nuove forme di audiovisivo di sintesi, prodotti talvolta cinematici ma non cinematografici, come nel caso dei machinima. Il termine, contrazione di machine cinema, indica una gamma di tecniche per sfruttare le risorse dei videogame con il fine di realizzare degli audiovisivi. I machinima così prodotti non sono esistenti sotto forma di filmato finito, ma solo come istruzioni perché un computer possa riprodurre, calcolandole ogni volta, le immagini del filmato. A computer spento, il film non esiste.

Gli eroi dei videogame, prima guidati tramite gamepad nell'azione del gioco, diventano ora fantocci da mettere su un set e far recitare, prestando loro la voce. L'operazione è molte volte resa divertente dalla divergenza tra il carattere epico e sobrio, spesso originario del personaggio, e le personalità improbabili che gli si possono attribuire.

 

La realtà virtuale non è più un'esperienza individuale: la connettività è divenuta un suo carattere fondamentale, insieme alla possibilità di interazione tra utenti, all'interno del cyber-spazio in cui ognuno controlla l'immagine che gli altri hanno di lui. Nel 2007 è stato realizzato il primo lungometraggio interamente 'girato' nella realtà parallela di Second Life, Molotov Alva and his search for the creator: a Second Life odyssey (Douglas Gayeton, 2007).[140]

 

Le società americane Activision e Lionhead Studios hanno rilasciato nel 2005 il videogame The Movies, in cui il giocatore deve gestire set cinematografici sul modello hollywoodiano e risolvere quei problemi che realmente si presentano nella produzione di un film. The Movies però va oltre la semplice simulazione di un set, permettendo al giocatore-regista di mettere in scena, girare e montare un film con gli elementi messi a disposizione nel gioco.

Su internet sono così fioriti spazi in cui gli utenti hanno pubblicato i loro film e cortometraggi realizzati attraverso The Movies.

Sarebbe un po' come fare un film utlizzando manichini animati al posto di attori, ma sistemi come questo, in grado di offrire gli strumenti per visualizzare l'azione scegliendo la giusta inquadratura o effettuare correttamente movimenti di macchina, seppur virtuali, da esercizio didattico possono anche divenire uno strumento di progettazione.

 

George Lucas, alla luce delle numerose motivazioni che spingerebbero a rinunciare all'utilizzo di esseri umani nella recitazione, riporta tutti con i piedi per terra:

Un computer può riprodurre Tom Hanks o chi per lui, sono cose che in effetti già facciamo per le scene d'azione più spettacolari, ma non si può riprodurre la voce di un attore, nè tantomeno la sua mimica facciale e il suo linguaggio del corpo, parti fondamentali della recitazione. Fare una cosa del genere significherebbe semplicemente creare la caricatura digitale di un attore. Recitare è e resterà un'espressione soltanto dell'essere umano.[141]

4.4 Leggerezza del digitale

Catturare le immagini e manipolarle in tempo reale sul monitor di un computer riduce le differenze tra la prefigurazione visiva che risiedeva nella mente dell'autore e il prodotto finito. Questo è il motivo per cui l'elettronica analogica prima, e l'elettronica digitale poi, hanno fatto la loro comparsa tra gli strumenti della regia come dispositivi di controllo, o di revisione immediata del girato. A tutt'oggi, in Italia, le cineprese in uso sui set dei film girati in pellicola sono dotate di un sensore CCD che permette di visualizzare l'inquadratura su più monitor di controllo presenti sul set. Moviecam e Panavision, due aziende tra le maggiori fornitrici di macchine da presa a pellicola, integrano tale sistema di video assist in tutte le loro macchine di recente produzione.

Così il regista dispone di un'immagine molto fedele a quella impressionata sulla pellicola, con cui condivide proprietà come la porzione di azione ripresa, o il fuoco dell'immagine. La segretaria di edizione, il fonico ed altri membri del cast tecnico potranno operare guardando verso il monitor, ad una certa distanza dal set per non intralciare chi vi opera direttamente.[142]

Abbiamo in parte già affrontato la questione delle tecnologie "invisibli", osservando l'uso del video assist sul set di Francis Ford Coppola nel 1982.

Le videocamere digitali offrono quasi tutte la possibilità di vedere cosa si stia inquadrando attraverso uno schermo LCD integrato. A differenza del mirino monoculare, lo schermo LCD non richiede all'operatore di portare la videocamera al volto, per controllare l'inquadratura.

Le riprese effettuate con le nuove videocamere, quindi, godono di una particolare leggerezza, che permette loro di inseguire il soggetto, nascondersi dietro ad esso, saltare o fermarsi laddove non si può montare una macchina da presa. Forse Cesare Zavattini, teorico del "pedinamento" dell'uomo comune allo scopo di tradurre eventi reali in storie, avrebbe apprezzato l'uso di leggere videocamere DV.

David Lynch ha girato il suo Inland Empire (2006) in Digital Video con videocamere semiprofessionali Sony DSR-PD150, che solitamente vengono adoperate per documentari per la televisione perché estremamente compatte e maneggevoli.

Lynch afferma:

Per me, non c'è via di ritorno. Ho chiuso con la pellicola. Amo l'astrazione. Il film è un bel medium, ma è molto lento e non ti dà modo di provare molte cose. Con il video digitale, hai tali possibilità. E in post-produzione, se puoi pensare una cosa, puoi farla.[143]

Il regista danese Lars von Trier, noto per i suoi film dissacratori e provocanti, ma anche per le innovazioni teoriche che questi portano con sè, nel 2000 gira Dancer in the dark, in digitale. Per una scena musicale del film, dispone oltre un centinaio di videocamere DV sul set, per riprendere l'azione dal maggior numero possibile di punti di vista. In fase di montaggio, ha poi scelto quale fosse di volta in volta il punto di vista da mostrare.

Con un altro suo film, Dogville (2003), von Trier ha dimostrato che videocamere DV possono operare anche insieme a star di Hollywood come Nicole Kidman, e non solo in produzioni minori. In questo caso quella del digitale non è stata una scelta economica, bensì stilistica. Anche in tale situazione von Trier ha sfruttato appieno la leggerezza dell'occhio digitale, ad esempio appendendo le videocamere a binari posti in alto sul set, e facendole poi scorrere sopra l'azione da riprendere.

 

Giovanni Spagnoletti, studioso di cinema, nonchè direttore della rivista “Close-up” e del Pesaro Film Festival, in un suo saggio in cui mette in discussione la rivoluzione del cinema digitale, fa una distinzione tra il digitale “caldo”, come quello usato dal gruppo danese che prende il nome di Dogma ’95, e il digitale “freddo”, utilizzato soprattutto nel cinema americano dei grandi effetti speciali:

All’idea affascinante, ma borghese, del regista demiurgo che piega la realtà a significare la propria visione del mondo, i primi registi “dogmatici”, da Lars von Trier […] a Thomas Vinterberg […] oppongono l’idea, ereditata o meglio mimata dalle nouvelles vagues degli anni Sessanta, di un cinema come specchio o finestra del mondo dove lo sguardo è oggettivo, obiettivo e assolutamente disinteressato. […] Il digitale, con la sua fredda piattezza, con i suoi colori spogli e disadorni, con la sua capacità di tuffarsi nell’ambiente, si presta meglio di ogni altra forma di ripresa a questo processo di voluta sottrazione. Un processo punitivo, dove anche artifici come il doppiaggio sonoro o le luci del direttore della fotografia divengono superflui».[144]

Ma le proibizioni imposte dai "dieci comandamenti" dogmatici non sono forse un comodo trucco per elevare a teoria quelle che erano già le più semplici esigenze del cinema low-budget? Non è contraddittorio esaltare la pellicola, e non farne poi uso? La pensa così Valeria De Rubeis:

L'operazione Dogma '95 è molto astuta perché sfrutta l'avvento del digitale con il richiamo a un passato in cui le correnti teoriche sono alla base della produzione cinematografica. [...] In tal modo i "dogmatici" sono riusciti a dare uno statuto ontologico alla rivoluzione informatica.[145]

Il voto di castità di Dogma '95 si chiude formalmente dieci anni dopo la sua nascita, nel 2005.

4.5 Sotto gli occhi di tutti

L'immagine registrata da una videocamera digitale è molto nitida, i suoi contorni netti, i colori riportati con precisione. Questa nitidezza, se sommata ad una corretta messa a fuoco di tutti gli elementi nel quadro, può apparirci finta. Questo problema, esclusivamente percettivo, si fa sentire di più in spettatori che hanno una maggiore confidenza con il modo in cui i film restituiscono la realtà ripresa.

Se isoliamo i singoli elementi che rendono un'immagine più o meno vicina al reale, scopriamo che in realtà questi elementi sono fattori di disturbo o distorsione, come la grana della pellicola o la profondità di campo, e che quindi finiscono per togliere dettaglio all'immagine più che aggiungerne.

Negli anni le ottiche cinematografiche, la pellicola, gli impianti illuminotecnici hanno dato una forma all'immagine cinematografica, che ancora oggi costituisce il modello da seguire per molti direttori della fotografia. Ma il digitale nitido, con i suoi contorni netti e i colori precisi, è reale più della pellicola. Cambia la resa visiva, insieme alla percezione della tridimensionalità dell'immagine, che non è iscritta nell'immagine stessa, ma deriva da un processo mentale[146].

Si può quindi ipotizzare che le nuove generazioni di spettatori, abituate a guardare film girati con videocamere che tendono a ridurre l'effetto di profondità, riconoscano presto la nitidezza digitale come una riproduzione del reale più fedele di quanto non faccia il cinema tradizionale.

Anzi, ai loro occhi le immagini del cinema in pellicola potrebbero apparire come degradate ad arte da una tecnologia ancora imperfetta.

 

Nel 2006 Mel Gibson si avvale della fotografia di Dean Semler per girare in digitale Apocalypto, violento film che descrive il declino dell'impero Maya.

La videocamera ad alta definizione utilizzata è una Panavision Genesis.

In un'intervista, Semler racconta che Gibson, molto curioso in fatto di nuove tecnologie, in qualità di produttore del film era estremamente attento ai costi. Ogni nastro che veniva registrato consentiva un risparmio di circa 7.000 dollari rispetto alla pellicola.

Per le riprese si è fatto uso della Spydercam, un sistema che permette di riprendere con la videocamera appesa all'ingiù:

Dovevamo girare con la Spydercam dalla cima di una cascata alta 45 metri, guardando sopra le spalle di un attore e poi sporgendoci oltre il bordo, letteralmente nella cascata. Pensavo l'avremmo girata in pellicola, ma poi ho montato la Genesis in un leggero scafo impermeabile. [...] Abbiamo girato due nastri da quindici minuti senza problemi, anche se una volta è entrata acqua e si è appannata. [...] Amo la pellicola, e probabilmente girerò ancora in pellicola, ma questa per me è davvero stata una rivelazione.[147]

In alcune scene del film, però, la capacità della Genesis di catturare la luce si è rivelata insufficiente. Si è quindi dovuto ricorrere alla sensibilità della pellicola, montata su una Arri 435[148], superiore nelle particolari condizioni di luce delle foreste pluviali del sud del Messico.

 

Un altro film girato in digitale che ha attirato l'attenzione attorno alla sua resa della luce è Collateral (Michael Mann, 2004). Tra le tre videocamere ad alta definizione usate in questo film si distingue la Thomson Viper FilmStream, camera a tre sensori, capace di catturare un'immagine grande 1920 x 1080 pixel, e di registrarla in formato non compresso, permettendo un notevole controllo in post-produzione. Uno dei punti di forza della Viper è la possibilità di girare in condizioni di luce scarsissima, il che ha permesso a Dion Beene, direttore della fotografia del film, di sfruttare l'illuminazione notturna della città di Los Angeles per conferire al film l'atmosfera cupa che lo contraddistingue:

[girare in digitale] è una situazione da cui non si torna indietro. Per me, gira tutto attorno a quale formato si adatti meglio al progetto e alla storia, e [l'alta definizione] costituisce un ulteriore strumento per il filmmaker. È così che la vedo. Ovviamente, la sua introduzione ha prodotto in risposta una grandiosa nuova serie da parte della Kodak. Credo gli abbia dato una spinta.

Anche in Italia si girano film in high definition. Davide Ferrario, autore di Dopo mezzanotte (2004), un film sull'amore per il cinema del passato, realizzato con i moderni strumenti del cinema digitale e con numerosi effetti di emulazione dei primitivi effetti speciali, racconta il perché della sua scelta:

È venuta fuori, allora, la proposta dell'alta definizione da parte di Dante Cecchin, la maggior autorità italiana sull'argomento. Abbiamo fatto dei test, m'ha convinto e l'ho invitato a fare il direttore della fotografia. Dal punto di vista economico era sostenibile, anche perché ci risolveva molti problemi. In un quarto d'ora illuminavi la scena, con metà delle persone utilizzate normalmente per un set. Quello è il vero vantaggio: la possibilità che hai di lavorare meglio, in tempi molto più ridotti. Però devi anche sapere cosa vuoi, cosa cerchi. Perché non è vero che in sé il digitale costa di meno. Inoltre, ci sono dei progetti che puoi fare in digitale, altri no.[149]

Gian Filippo Corticelli ha curato la fotografia di Paz! (Renato De Maria, 2002), un film che intreccia le vicende di vari personaggi nati dalla matita del fumettista Andrea Pazienza, dal carattere surreale e fantasioso, legato alle mobilitazioni studentesche del 1977 a Bologna.

Questa è la sua testimonianza sulla scelta che lo ha portato a girare con videocamere DVCAM:

Una delle domande che più frequentemente mi veniva rivolta durante la lavorazione di Paz! era: "bella questa scena, ma sul grande schermo come verrà... peggiorerà... migliorerà?" Un'ulteriore conferma quindi del carattere sperimentale e sconosciuto ai più del digitale. [...]

I film girati in digitale che mi è stato possiblie visionare prima di Paz! erano orientati verso una fotografia che prevedeva una struttura illuminotecnica fondata esclusivamente sull'uso della luce naturale o di quella artificiale già presente nella scena. Nel caso di Paz!, invece, ho cercato di "dominare la situazione", di forzarla in alcuni casi controllando le situazioni di luce, come se stessimo girando in pellicola. Il procedimento faticoso di messa in scena che ne è conseguito mi ha tuttavia dato i risultati che speravo.[150]

È necessario fare presente come il film sia stato prodotto con un budget molto ristretto, che non avrebbe potuto coprire gli alti costi della pellicola.

Che si tratti di finanziamenti o di stile, Corticelli, come Beebe, concepisce i vari formati digitali come tanti elementi che vanno ad accrescere il ventaglio di scelte per produzioni e direttori della fotografia:

Dopo questa esperienza posso dire di avere una possibilità in più quando mi trovo a dover "visualizzare" un progetto destinato a essere proiettato. Accanto al 35mm, al 16mm gonfiato, al super35mm portato a cinemascope, ecc. ora so di poter contare anche sul dvcam. Sarà più adatto a certi film, meno ad altri ma è sicuramente uno strumento in più per registi e direttori della fotografia. [151]

Conclusione

Wim Wenders si è interrogato più volte sulla questione del video, e a modo suo, ha reso lo spettatore partecipe di tali riflessioni.

Nel 1991 ha girato Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt), nella cui storia le videocamere amatoriali hanno un ruolo particolare nello studio di un sistema per la registrazione dei sogni. «Si tratta, insomma, di quegli elementi meta-narrativi fondanti una linea simulativa che corre parallelamente a quella tradizionale, diegetica, della storia raccontata.»[152]

Qui Wenders mette in scena la simulazione della visione donandole lo statuto di metalinguaggio. Ma in Lisbon story, del 1994, attua un procedimento diverso, indaga l'oggettività «pura», non mediata dall'interpretazione di chi gira, per poi superarla. Così il regista che nel film tiene accesa la videocamera sulle spalle, per riprendere scene mai viste neanche da chi le gira, si fa portatore della concezione secondo cui ogni intenzione o interpretazione dell'autore corromperebbe la realtà ripresa. Ma ecco il protagonista farsi enunciatore di Wenders: «Se nessuno guarda attraverso la lente, ecco quello che vedranno su questi dannati video le generazioni future: il punto di vista di nessuno. Non c’è ragione di fare immagini spazzatura da buttare un minuto dopo».

Il personaggio del film di Wenders estremizza una concezione di arte «oggettiva», una visione dell'artista che insegue la neutralità.

Eppure l'idea di autore che conserviamo ancora oggi suggerisce che egli sia tale perché sa imporre la sua visione, dando vita al processo di conversione del naturale in arte.

Nel 1948 Alexandre Astruc teorizza un elemento chiave della teoria dell'autore: la nozione di caméra-stylo, l'idea che i registi dovessero usare la cinepresa nello stesso modo in cui uno scrittore tiene in mano una penna.[153] Senza intermediazioni, l'autore potrebbe così trascrivere la realtà del mondo in cui è immerso.

Il digitale, nella forma delle economiche videocamere palmari, realizza tale profezia: esso riduce il tempo tra il concepimento di un'idea e la sua ripresa, e così il regista-autore può anche essere lì da solo con la sua «videocamera-stylo», a riprendere ciò che vede, trasportato solo dalla sua ispirazione.

Giuseppe Bertolucci racconta:

La prima possibilità che il digitale offre e che mi stimola è quella di un ridimensionamento della messinscena, [...] quasi un suo abbattimento. [...] Usando il digitale come caméra stylo, si viene invitati a usare il mondo come set possibile, a non intervenire sulla realtà con laboriosi ricorsi a scenografia, illuminazione, costumi, trucco: a rifiutare la messinscena come ricostruzione artificiale della realtà, e a usare quest'ultima per quello che è.[154]

La dichiarazione di Bertolucci è un elogio al vantaggio di ridurre i tempi di lavoro sul set e quelli per la sua preparazione, ma è ovvio il riferimento al senso di libertà che avvicina visione diretta e ripresa «a caldo».

 

Già con Bazin e la sua nozione di "montaggio proibito" si faceva strada l'idea secondo cui una garanzia della genuinità di un'azione era la ripresa in piano sequenza, «istanza narrativa realistica».[155]

Il nome stesso indica come la complessità dei movimenti o delle azioni contenuti in un unico take possano essere considerati come una sequenza a sè stante.

Grazie alla tecnologia digitale, Robert Altman può girare, per il suo film The Company (2003), una singola scena di ventotto minuti senza stacchi, utilizzando cinque camere ed entrando in scena più volte per dirigere gli attori, senza fermare la registrazione.[156]

L'HD della Sony HDW-F900 permette al regista russo Alexander Sokurov di girare Arca russa (2002), filmando ininterrottamente per novantasei minuti con una steadicam. Il film è un unico piano sequenza, in cui lo sguardo del protagonista, presente solo attraverso tale soggettiva, è guidato nella visita al museo dell'Ermitage di San Pietroburgo. Se Eric Rohmer con La nobildonna e il duca (L'Anglaise et le Duc, 2001) aveva scelto la capacità bidimensionalizzante del digitale per dipingere sullo schermo dei tableaux vivants di costumi e colori, Sokurov anima tali quadri viventi e ne fa la pasta del suo viaggio attraverso il susseguirsi di cicli storici attribuendo alla certezza dell'arte la custodia del genio umano.

 

L'immagine digitale è fluida, e chiede di essere frammentata, resa veloce, tenuta per poco tempo sullo schermo, complice anche la grande mole di girato che è ora facile accumulare.

Inevitabilmente, le nuove potenzialità influenzano il linguaggio. Mike Figgis è l'autore di un particolare esperimento narrativo, Timecode (2000), che regala allo spettatore un'inedita capacità di visione multipla.

Quattro operatori di ripresa hanno girato quattro piani sequenza lunghi novanta minuti ciascuno, simultaneamente. I quattro filmati sono poi stati montati insieme sullo schermo, che, diviso in quattro, mostra da quattro diversi punti di vista l'intreccio del film e i vari subplot. La recitazione e i dialoghi degli attori sono stati in gran parte improvvisati.

Riguardo allo strappo alla regola attuato con il suo film, Figgis ha dichiarato:

Il vero criminale nella corruzione del cinema è il montaggio e il sistema di raccontare bugie mediante lo stacco, l'interruzione. Sul piano psicologico, è una corruzione. Così questo film è, in qualche modo, un tentativo di dimostrare che possiamo agire in maniera diversa, attraverso il montaggio piuttosto che il taglio, così da poter avere azioni simultanee. Questo permette ad ognuno di dare un'interpretazione molto diversa. Non esiste una sola interpretazione che oggi non sia ricca quanto serve.[157]

Figgis pone quindi particolare attenzione al lavoro mentale dello spettatore, che con la sua esperienza e la sua fantasia completa e cementifica i frammenti di storia che riesce a cogliere.

In un film del genere, il montaggio vero e proprio spetta allo spettatore con i suoi occhi, come invita a fare la tagline della locandina: "Who do you want to watch?"

Tecnicamente, non sarebbe stato possibile girare Timecode in pellicola. La macchina da presa è troppo pesante e non è possibile farla arrivare laddove non si sia posizionato un binario o una gru. Inoltre, lo chassis di una macchina da presa può contenere pellicola per un massimo di quindici minuti consecutivi, rendendo impensabile un unico take da novanta minuti.

 

Il gallese Peter Greenaway, che intende il cinema più come arte della visione che non della narrazione per immagini[158], mette in scena una trilogia epica che si snoda attraverso 16 episodi, da considerare come un unico film. Le valigie di Tulse Luper (The Tulse Luper Suitcases, 2003, 2004) è un progetto multimediale che oltre ai tre film, girati e postprodotti in digitale, comprende siti web, CD-ROM e libri.

Nei film ricorre il tema della visione raddoppiata, composta con didascalie e frammentata cronologicamente. Greenaway fa largo uso della videocomposizione, mantenendo un forte referente pittorico, forse più vicino alla videoarte che alla pittura statica. La visione ricorda a volte lo schermo di un computer, su cui possono apparire definizioni degli oggetti inquadrati, link, grafica tridimensionale.

Greenaway ci racconta così il mutamento di forma del suo cinema verso la multimedialità:

Spero che nel vedere il film il pubblico si accorga della grande qualità del supporto sul quale è inciso. Amo sperimentare nel linguaggio visivo in modo da adattare l'immagine ai contenuti anche attraverso mezzi diversi da quelli propri del cinema. Ora è possibile montare e rimontare le scene in tempo reale e senza nessun costo. Sappiamo che la Kodak non produrrà più pellicole fra dieci anni. Non è un discorso da snob, ma l'epoca del 35 millimetri è finita. Anche le logiche di distribuzione dovranno cambiare profondamente per adattarsi. Così si potrà vedere il proprio film preferto quando, dove e come si vorrà. A differenza di "Casablanca" che è sempre uguale, "Tulse Luper" sarà un'opera in continuo divenire fintanto che i produttori avranno voglia di andare avanti.[159]

Greenaway si è costruito l'immagine di autore bizzarro e provocatore, e i suoi film puntano tutti verso un'idea di grande impatto visivo. Tuttavia, con la sicurezza che non sia ancora stata inventata la tecnologia necessaria a realizzare il cinema che ha in mente, lo stesso regista mette in dubbio il primato del cinema come forma d'arte suprema, capace di contenere tutte le altre:

Il cinema è una vecchia tecnologia. Abbiamo visto un cinema incredibilmente moribondo negli ultimi trent'anni. In un certo senso, Godard aveva distrutto tutto... ha spezzato il cinema, lo ha frammentato, lo ha reso cosciente di sè. Come tutti i movimenti estetici, è durato in sostanza cento anni.[160]

 

Note

 

[1] R. BARJAVEL, Cinema totale, Editori Riuniti, Roma, 2001, pp. 57-58.

[2] Cfr. D. BORDWELL, K. THOMPSON, Storia del cinema e dei film, Volume I - Dalle origini al 1945, Editrice Il Castoro, Milano 1998, p. 44 e sgg.

[3] F. CASETTI, F. DI CHIO, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1995, p. 164.

[4] Cfr. N. BURCH, Il lucernario dell'infinito - Nascita del linguaggio cinematografico, Editrice Il Castoro, Milano, 2001, p. 33.

[5] L. MANOVICH, Cos'è il cinema digitale?, http://www.trax.it/lev_manovich.htm, 1995.

[6] V. CASTELNUOVO, La storia segreta del cinema, in Incontri ravvicinati - Interviste agli specialisti italiani del cinema digitale, a cura di F. BONVICINI, Lindau, Torino, 2003.

[7] D. BORDWELL, K. THOMPSON, op. cit., p. 276.

[8] A. COSTA, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano, 1985, p. 75.

[9] R. BARJAVEL, op. cit., citato in M. GRECO, Il digitale nel cinema italiano. Estetica, produzione e linguaggio, Lindau, Torino, 2002, pp. 20-21.

[10] A. AMADUCCI, Anno zero – Il cinema nell’era digitale, Lindau, Torino, 2007, p. 207.

[11] Cfr. M. DE BENEDICTIS, Il cinema globale, in Il cinema del terzo millennio, a cura di M. DE BENEDICTIS, Lithos, Roma, 2001.

[12] W. MURCH, In un batter d’occhi – Una prospettiva sul montaggio cinematografico nell’era digitale, Lindau, Torino, 2001, p. 110.

[13] A. COSTA, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano, 1985, p. 106 e sgg.

[14] A. ROMEO, G. FARA, Vita da pixel – Effetti speciali e animazione digitale, Editrice Il Castoro, Milano, 2000, pp. 15-16.

[15] M. HANSON, The End of Celluloid - Film Futures in the Digital Age, RotoVision, Hove 2004, p. 9.

[16] A. ROMEO, G. FARA, op. cit., pp. 106-107.

[17] A. BALZOLA, introduzione a Le arti multimediali e digitali, a cura di A. BALZOLA, A. M. MONTEVERDI, Garzanti, Milano, 2004, pp. 10-11.

[18] F. AMERIO, La mutazione digitale – Fotografia, cinema, video, in A. BALZOLA et al., op. cit., p. 175.

[19] S. BORRI, Distribution in the digital model: the delivery and transmission of content, in «European Cinema Journal», aprile 2006, http://www.mediasalles.it/journal/ecj1_06ing.pdf.

[20] Cfr. http://www.smpte.org/.

[21] Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/D-ILA.

[22] F. AMERIO, op. cit., p. 193.

[23] Cfr. http://www.eetimes.com/news/latest/showArticle.jhtml?articleID=173402762.

[24] Cfr. http://www.indiewire.com/ots/fes_00Sund_991001_digital.html.

[25] Cfr. Barco's goals to enhance digital projection, in «European Cinema Journal», marzo 2007, http://www.mediasalles.it/journal/ecj1_07ing.pdf.

[26] M. DEL MANCINO, The spread of D-Cinema: 2006 year of the watershed, ivi.

[27] Cfr. http://www.dcinematoday.com/dc/pr.aspx?newsID=912.

[28] M. DEL MANCINO, op. cit.

[29] Cfr. http://www.dlp.com/cinema/search_results.aspx?country=109.

[30] Cfr. http://www.multiplexarcadia.com/0_3_1_2_2_d_cinema.jsp.

[31] Cfr. http://www.dcimovies.com/v1errata/DCI_Digital_Cinema_System_Spec_v1.pdf.

[32] Cfr. S. BORRI, op. cit.

[33] E. BUFFONI, Addio vecchia pellicola: arriva il proiettore digitale, su «Repubblica.it», 6 marzo 1999, http://www.repubblica.it/online/cinema/pellicola/pellicola/pellicola.html.

[34] M. GRECO, op. cit., p. 76 e sgg.

[35] Cfr. A. AMADUCCI, op. cit., p. 210.

[36] Cfr. S. BORRI, op. cit.

[37] Cfr. P. MAROCCO, La crisi delle sale: il digitale abortito in «Cinema.it», 21 luglio 2005, http://cinema.dada.net/dossier/artI2590.html.

[38] Cfr. A. FREEMAN, Digital Divide, in «In Focus», agosto/settembre 2004, http://www.natoonline.org/infocus/04augustseptember/digitaldivide.htm.

[39] Cfr. R. GAMBETTI, La progettazione dell'offerta della sala, in «European Cinema Journal», n. 2, aprile 2005, http://www.mediasalles.it/journal/ecj2_05ita.pdf.

[40] Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Image_resolution.

[41] Cfr. A. BAKALIS, It's unreel: DVD rentals overtake videocassettes, in «Washington Times», 20 giugno 2003, http://washingtontimes.com/business/20030620-113258-1104r.htm.

[42] Cfr. http://www.univideo.org/.

[43] Cfr. http://www.engadget.com/2008/01/22/blu-ray-players-grab-93-percent-of-market-after-warner-went-blu.

[44] Cfr. http://www.engadget.com/2008/02/19/live-from-toshibas-hd-dvd-press-conference-in-tokyo/ e http://www.homemediamagazine.com/news/html/breaking_article.cfm?sec_id=2&&article_ID=12118.

[45] Cfr. http://punto-informatico.it/p.aspx?i=2156626.

[46] Cfr. http://www.engadget.com/2006/02/16/breaking-news-sonys-umds-arent-selling-well/.

[47] Cfr. http://www.macworld.com/article/131580/2008/01/itunesmovierentals.html.

[48] Cfr. http://www.tuaw.com/2008/01/15/itunes-digital-copy/.

[49] Cfr. http://www.melablog.it/post/5149/itunes-digital-copy-dai-dvd-ad-itunes-con-un-clic.

[50] Intervista di K. JAWOROWSKI per «The New York Times», 11 marzo 2006, http://www.nytimes.com/2006/03/11/business/media/11interview.html.

[51] Cfr. http://www.wired.com/science/discoveries/news/2006/02/70202.

[52] Cfr. http://www.cbc.ca/story/arts/national/2006/01/31/bubble.html.

[53] Cfr. http://arstechnica.com/news.ars/post/20060112-5967.html.

[54] http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=41746.

[55] Cfr. F. MONTINI, Cinema-telefonini, nuovo scontro, in «Repubblica.it», 21 dicembre 2005, http://www.repubblica.it/2005/l/sezioni/scienza_e_tecnologia/filmvideotelef/filmvideotelef/filmvideotelef.html.

[56] Cfr. http://www.gsmworld.com/news/press_2008/press08_06.shtml.

[57] http://www.youtube.com/watch?v=wKiIroiCvZ0.

[58] http://www.goldencompassmovie.com/.

[59] Post: articolo pubblicato su un blog.

[60] Filesharing: condivisione di file, perlopiù illegali perché in violazione al copyright che li ricopre, all'interno di una rete telematica.

[61] Amazon: catena di negozi on-line, dalla grande disponibilità di film in DVD.

[62] http://www.imdb.com/.

[63] Cfr. http://www.rlslog.net/piracy-isnt-that-bad-and-they-know-it/.

[64] Cfr. http://www.hideout.it/index.php3?page=notizia&id=1384.

[65] Cfr. http://www.gadling.com/2007/03/28/7-elevens-to-be-converted-to-kwik-e-marts/.

[66] Cfr. http://filmup.leonardo.it/news/press/20071214a.shtml.

[67] Cfr. http://www.cinema.beniculturali.it/normativa/DM%2030%20luglio%202004.pdf.

[68] R. NATALE, Spot prima degli esami, in «Articolo 21», 26 febbraio 2007, http://www.articolo21.info/notizia.php?id=4603 .

[69] Ibidem.

[70] Cfr. http://pogle.pandora-int.com/solutions.php.

[71] M. GERMOGLIO citato in M. GRECO, op. cit., p. 71.

[72] Intervista di M. PASQUINI per «35mm.it» http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=11419.

[73] D. BERARDI, contenuto extra in Jason X, Medusa, 2005.

[74] Cfr. http://www.jpeg.org/apps/cinema.html?langsel=it.

[75] S. M. EJZENšTEJN, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino, 1964, p. 270.

[76] V. DE RUBEIS, Vedere digitale, Dino Audino, Roma, 2005, p. 112.

[77] Cfr. http://www.spettacolo.beniculturali.it/dipart/osserv/relfus/2001/9ispettivo.pdf.

[78] L. ALBANO, Il secolo della regia, Marsilio, Venezia, 1999, p. 296.

[79] Cfr. http://www.fapav.it/IT/1024+.htm.

[80] Cfr. F. RIGATELLI, Film, i produttori si arrendono ai pirati, in «La Stampa.it», 24 ottobre 2007, http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/cinematv/grubrica.asp?ID_blog=33&ID_articolo=515&ID_sezione=260.

[81] Cfr. M. THURESSON in «Los Angeles Business Journal», 22 settembre 2003, http://www.labusinessjournal.com/archive_article.asp?aID2=75779.

[82] S. BYERS et al., Analysis of Security Vulnerabilities in the Movie Production and Distribution Process, p. 1, http://lorrie.cranor.org/pubs/drm03-tr.pdf.

[83] Cfr. http://www.creativematch.co.uk/viewnews/?93600.

[84] Cfr. http://www.usdoj.gov/criminal/cybercrime/ob/OBorg&pr.htm.

[85] Cfr. S. BYERS et al., op. cit., p. 9.

[86] Warez: materiale digitale distribuito in violazione al copyright che lo ricopre.

[87] Writer: autore di graffiti eseguiti con vernice spray.

[88] Cfr. http://www.comscore.com/press/release.asp?id=249.

[89] Cfr. http://www.businessweek.com/technology/content/may2006/tc20060508_693082.htm e http://www.bittorrent.com/movies?csrc=_l-c_l.

[90] Cfr. http://www.reuters.com/article/musicNews/idUSN0132743320071203?pageNumber=3.

[91] Cfr. http://www.theregister.co.uk/2007/01/24/apple_drm_illegal_in_norway.

[92] Cfr. http://lxer.com/module/newswire/view/78008/index.html.

[93] Cfr. http://attivissimo.blogspot.com/2007/01/bucati-i-formati-hd-dvd-e-blu-ray.html.

[94] Cfr. http://www.scarichiamoli.org/main.php?page=home.

[95] Cfr. http://www.iwouldntsteal.net/ e http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp?ID_blog=30&ID_articolo=3847&ID_sezione=38.

[96] V. DE RUBEIS, op. cit., p. 43 e sgg.

[97] M. GRECO, op. cit., p. 56.

[98] Cfr. http://movies.nytimes.com/2007/11/02/movies/02shar.html.

[99] Cfr. http://www.digital-retribution.com/reviews/other/f005.php.

[100] Gore: come lo splatter, un genere di film costruito attorno alla spettacolarizzazione della lacerazione del corpo umano.

[101] Cfr. http://aswarmofangels.com/2007/12/phase-3-is-coming/.

[102] http://adoptthismovie.com/.

[103] http://theroleplayer.it/.

[104] http://www.adoptamovie.com/.

[105] http://selfcinema.it/home.html.

[106] http://www.sellaband.com/.

[107] Cfr. http://psillustrated.com/e3_2005/story.php/E3%20Buzz/658.

[108] http://www.gamesindustry.biz/content_page.php?aid=29270.

[109] Cfr. http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1657825,00.html.

[110] Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Gameplay .

[111] A. SALVI, Ma Lara non può sorridere, in «Duel», Editoriale Modo srl, Milano, agosto/settembre 2001, citato in B. MAIO, C. UVA, L'estetica dell'ibrido, Bulzoni, Roma, 2003, p. 91.

[112] Cfr. http://www.davidem.com/.

[113] Cfr. http://www.businessweek.com/technology/content/jul2006/tc20060725_012342.htm.

[114] Cfr. R. BARJAVEL, op. cit., passim.

[115] Ivi, p. 59.

[116] Ivi, p. 60.

[117] B. MAIO, C. UVA, op. cit., p. 31.

[118] Ivi, p. 31 e sgg.

[119] Cfr. A. ROMEO, G. FARA, op. cit., p. 125.

[120] B. MAIO, C. UVA, op. cit., p. 36 e sgg.

[121] Maeniana: sezioni concentriche della cavea del Colosseo.

[122] M. DE BENEDICTIS, op. cit., p. 23.

[123] V. DE RUBEIS, op. cit., p. 111.

[124] Cfr. M. DE BENEDICTIS, op. cit., p. 25.

[125] G. SPAGNOLETTI, in Nuovo Cinema (1965-2005) – Scritti in onore di Lino Miccichè, a cura di B. TORRI, Marsilio Editori, Venezia, 2005, p. 138.

[126] Intervista di E. HERNANDEZ per «indieWIRE», http://www.indiewire.com/biz/biz_000411_briefs.html.

[127] Cfr. http://www.diplomatie.gouv.fr/en/article-imprim.php3?id_article=5281.

[128] A. FARASSINO, citato in A. COSTA, op. cit., p. 200.

[129] Cfr. ivi, p. 202.

[130] Cfr. V. DE RUBEIS, op. cit., p. 30.

[131] Cfr. M. DE BENEDICTIS, op. cit., p. 37.

[132] Ivi, p. 44.

[133] Cfr. http://www.ccsnews.it/dettaglio.asp?id=1418.

[134] Chipmunk: scoiattolo americano.

[135] Cfr. G. P. BRUNETTA, Storia del cinema mondiale, Einaudi, Torino, 2000, vol. II, tomo II, p. 1782 e sgg., e L. MENAND, Billion-Dollar Baby, in «The New York Review of Books», 24 giugno 1999, pp. 8-11.

[136] http://en.wikiquote.org/wiki/Alfred_Hitchcock.

[137] Animatrone o animatronic: fantoccio robotico.

[138] Cfr. http://darkhorizons.com/news05/kong2.php.

[139] Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Synthespian.

[140] Cfr. V. SCU., Ciak, si gira nel mondo virtuale, in «Nòva» n.101, supplemento a «Il Sole-24 Ore», 22 novembre 2007, p. 5.

[141] Intervista di A. DE SIMONE per «35mm.it», http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=17523.

[142] Cfr. M. DE BENEDICTIS, op. cit., p. 76.

[143] Intervista di A. DAWTREY per «Variety», http://www.variety.com/article/VR1117922566.html?categoryid=1731&cs=1.

[144] G. SPAGNOLETTI in B. TORRI (a cura di), op. cit., p. 137.

[145] V. DE RUBEIS, op. cit., p. 45.

[146] Cfr. ivi, p. 25.

[147] http://cinematech.blogspot.com/2006/06/dion-beebe-dean-semler-tom-sigel-and.html.

[148] Cfr. http://www.ascmag.com/magazine_dynamic/January2007/Apocalypto/page1.php.

[149] A. MARALDI (a cura di), Il cinema di Davide Ferrario, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2007, p. 57.

[150] Paz!: un film in digitale, contenuto extra in Paz!, Cecchi Gori, 2002.

[151] Ibidem.

[152] B. MAIO, C. UVA, op. cit., p. 86.

[153] Cfr. A. ASTRUC, Naissance d’une nouvelle avant-garde, in «L’Ecran français», n° 144, 30 marzo 1948.

[154] G. BERTOLUCCI, Videocamera, amore mio! Perché il digitale, http://www.rai.it, citato in M. GRECO, op. cit., p. 34.

[155] V. DE RUBEIS, op. cit., p. 44.

[156] F.AMERIO, op. cit., p. 196.

[157] Intervista di J. ROBERTS per «School CIO», http://www.sonyusadvcam.com/.

[158] Cfr. V. DE RUBEIS, op. cit., p. 104.

[159] Intervista di F. DELLA ROCCA per «35mm.it», http://www.35mm.it/articoli/articolo.jsp?idArticolo=27179.

[160] Intervista di C. HAWTHORNE per «Salon», http://www.salon.com/june97/greenaway2970606.html.

 

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